Storia della Canzone Napoletana
di Maurizio Targa


Un attento studio della storia della canzone italiana non può prescindere dall'analizzare la storia e l'evoluzione della musica napoletana, verso la quale la musica nazionale è in così grande debito. Andando indietro nel tempo, solo dalla fine dell'ottocento infatti si può iniziare a parlare di musica "italiana", prima di tale periodo la scena musicale era dominata dalla canzone in dialetto, e dalla canzone napoletana in particolare.


LA NASCITA
Per risalire alle radici di quella che sarà la musica "pop" partenopea dobbiamo sprofondare nella notte dei tempi, addirittura nei secoli bui del medioevo, che, però, per il nostro mezzogiorno, sotto il regno di Federico II erano forse meno bui che per il resto della penisola. A quei tempi il Vomero non era ancora un popoloso quartiere di Napoli, ma un colle rigoglioso di faggi e castagni punteggiato da casali e da lavandaie che intonavano "villanelle" (così venivano chiamate le canzoni agresti a tema amoroso cantate a più voci) che ancora resistono nel repertorio popolare napoletano, e note appunto come Canti delle lavandaie del Vomero. Siamo, come detto, verso il 1250. Di qualche tempo più tardi è un altro pezzo ancora vivo nella memoria popolare, si tratta di Michelemmà, storia di una ragazza rapita dai pirati saraceni durante una delle frequenti scorrerie sul litorale campano (Michela a mare, appunto), canzone a ballo dal ritmo allegro nella quale si scorgono già i caratteri della tarantella, ballo che, pur se di origine pugliese come ben richiama il suo nome, conoscerà a Napoli le migliori fortune (è tuttavia controversa questa interpretazione, attribuendo altri il nome tarantella al dimenarsi tipico di chi viene morso da una tarantola, il "tarantolato" appunto). In questi brani va comunque ricercato il passaggio tra "tradizione popolare" e canzone. La prima è infatti basata sull'oralità, nel senso che la sua creazione ed il suo tramandarsi avviene sempre senza l'uso della scrittura. La canzone invece è legata ai meccanismi della produzione colta, con tanto di spartiti e testo scritto, in questo senso i brani che abbiamo appena citato, provenienti senz'altro dalla tradizione popolare, ma successivamente trascritti da letterati e musicisti di estrazione accademica, sono da considerarsi il momento di transizione tra la tradizione musicale orale e la canzone vera e propria.

Scorriamo quindi fino ai primi dell'ottocento, passando per altri motivi che hanno lasciato tracce di se nella memoria collettiva, e non di rado sono stati ripresi recentemente da gruppi della "new age" napoletana (si pensi a Lo Guarracino, Cicerenella), brani come Fenesta vascia o Fenesta ca lucive, dai versi definiti "altissimi" da Pier Paolo Pasolini, fino ad arrivare ad un altro, importantissimo "punto di svolta" della canzone partenopea, nel 1839.


LA NONNA DI SANREMO E LA PRIMA "VOLARE"
Piedigrotta, 1839. Viene presentata una canzone che soggiogherà letteralmente Napoli, diventando addirittura per alcuni un ossessione. Si tratta di Te voglio bene assaje, pezzo che ebbe un successo travolgente (se ne venderanno subito 180.000 copielle, fogli con il testo della canzone stampato), che veniva cantata e fischiata davvero da tutti, al punto da indurre qualche napoletano (è successo veramente, lo riportano le cronache dell'epoca) a lasciare la città per non rischiare di impazzire. Sulla nascita di questo brano fiorirono molti aneddoti, chi raccontò che il Sacco, affermato rimatore salottiero napoletano improvvisasse questi versi nei riguardi di una signorina con la quale aveva avuto una relazione, chi attribuì la musica a Donizzetti. Ad ogni buon conto, il brano, lasciatoci dal suo autore con testo scritto e firmato con nome e cognome, rappresenta l'atto di nascita della canzone italiana d'autore. Come dicevamo, la canzone ebbe un successo travolgente, ossessionante, sentite questi versi che il barone Zezza, anche lui ormai ossessionato dal brano, ci ha lasciato, e che recitano "Da cinche mise canchero / matina juorno e sera / fanno sta tiritera / tutti li maramè - Che ssiente addò te vote - che ssiente addò tu vaie - te voglio bbene assaje - e tu nun pienze a mme!!!" che crediamo riescano ad interpretare anche i non-napoletani.

Ma oltre al successo, questo pezzo ha il merito di lanciare l'usanza di diffondere i nuovi pezzi in occasione della festa della Vergine. Il 7 settembre di ogni anno, quindi, festa della Natività di Maria, in mezzo a carri festanti e luminarie, si presentano al pubblico i nuovi brani che gli artisti hanno preparato per la stagione, in una vera e propria Sanremo ante litteram che conoscerà le più alte fortune. E' nato il Festival di Piedigrotta, che darà successo a pezzi celeberrimi quali Funiculì Funiculà, 'E spingole frangesi, 'O sole mio.


L'INDUSTRIA DISCOGRAFICA DEL TEMPO
Ancora lontani i tempi della fonoincisione, è interessante studiare come venivano diffuse le nuove melodie che si componevano. Delle copielle abbiamo detto, fogli volanti sui quali veniva stampato alla buona il testo della canzone. L'editore (di solito anche tipografo) donava mille copie stampate all'autore ed una quantità variabile in denaro a seconda del prestigio dell'artista a titolo di diritto d'autore, le altre le affidava ad abili venditori ambulanti che le piazzavano in giro per la città. La popolarità del brano veniva affidata anche a posteggiatori, musicanti girovaghi che operavano in ristoranti di Napoli o nei locali alla moda che eseguivano i loro pezzi per pochi spicci come una sorta di juke box umani, ma che non di rado facevano carriera fino ad arrivare ad esibirsi nei più noti teatri; diffusi anche gli organetti o i pianini meccanici, di solito "installati" in botteghe di barbieri o sartorie. Le "periodiche" erano i palcoscenici dei salotti napoletani, riunioni nelle quali un poeta o un tenore declamavano i loro versi, comici motteggiavano scherzosamente sui presenti e, quando il salotto ospitante era tra quelli della Napoli "bene", si sorseggiava rosolio e si gustava un buffet freddo, nelle case più modeste si servivano (da qui la nota espressione) tarallucci e vino.


LA SCENEGGIATA: NATA PER EVADERE LE TASSE
Anche la genesi di questo genere ha del curioso: nel dopoguerra, infatti, lo Stato impone agli spettacoli musicali una forte tassa, allo scopo di disincentivarli e di combattere il degrado e l'improvvisazione che vi regnavano, e di favorire quindi la prosa. Fatta le legge, trovato l'inganno: vengono quindi realizzate delle "scene sulle canzoni", con un testo teatrale scritto, all'interno del quale convivono, come nel varietà, canzone, recitazione e ballo. Dopo i primi esperimenti del 1919, la sceneggiata raggiunse una sua fisionomia più stabile con l'adozione della canzone drammatica. La sceneggiata ha due prevalenti aree di diffusione: Napoli e la Little Italy americana. Le storie napoletane sono quasi tutte d'amore e tradimento, la donna di solito è rappresentata come un essere infido, traditore; in quelle d'ambientazione americana invece, a parte il costante riferimento al tema dell'emigrazione, impongono nuovi argomenti, a cominciare dal sociale, che tuttavia non mancano nemmeno a sceneggiate ad ambiente partenopeo, ne è un esempio l'opera forse più conosciuta di Libero Bovio, 'O Zappatore.

Di tono diametralmente opposto è la macchietta: questo genere fu magistralmente interpretato dall'attore buffo Nicola Maldacea, verso la fine del secolo scorso, e deve il suo nome proprio alla definizione che ne diede il Maldacea stesso: una piccola macchia, un caratterizzare in chiave comica con poche pennellate di colore un luogo o un personaggio. La novità ebbe grande successo e nacquero così le oltre cento macchiette pubblicate dall'editore Bideri, quasi tutte di carattere spassoso ed imperniate sul doppio senso, come Il membro del comitato, Lieva 'e mmane alloco. Il genere fu ripreso decenni più tardi quando, coi suoi caratteri, nacquero Ciccio Formaggio o Dove stà Zazà, destinate ai più grandi successi.


CAPOLAVORI, INTERPRETI E FEMMINISTE NAPOLETANE
Riferita alla prima guerra mondiale è la splendida 'O surdato innamurato, della quale ogni napoletano, anche giovanissimo, è in grado di cantare il ritornello, del 1917 è Reginella, splendido valzer sul testo di Libero Bovio, del '18 'A tazza 'e cafè, interpretata da Elvira Donnarumma. E proprio a quest'ultima ed alla sua triste agonia pare che Libero Bovio s'ispirasse per il suo capolavoro (un altro) del 1923, la famosissima Chiove. Nel 1925, sempre Bovio, darà vita, assieme a D'Annibale, a 'O paese d'o sole. Ma torniamo alla Donnarumma. E' un periodo d'oro per gli interpreti in generale (Pasquariello su tutti), ma in particolare si affermano le interpreti femminili, grandi per le loro passioni come all'ultimo sangue furono le loro rivalità: Elvira Donnarumma, forse la più grande, sublime artista, passionale, forte nella dizione e negli accenti, dopo una moltitudine di trionfi, da tempo malata, si congeda teatralmente nel 1933 dal suo pubblico cantando L'Addio e scompare, appena cinquantenne; Gilda Mignonette, nome d'arte di Gilda Andreatini, debutta come ballerina ed eccentrica, milita nella compagnia di Raffaele Viviani, poi, convertita alla melodia tradizionale napoletana, nel 1924, parte per l'America, dove diventa la regina degli emigranti con la sua Cartulina 'e Napule, ma torna periodicamente nella sua città natale, da perfetta sciantosa ingioiellata, impelliciata e con la sua Rolls-Royce. Lina Resal, debutta giovanissima, ha un successo travolgente e poi muore prematuramente (a 30 anni, nel 1936) per una bronchite malcurata, per rispettare gli impegni di registrazione presi con la casa editrice Phonotype.

I rapporti tra queste grandi e capricciose artiste furono incandescenti. La Resal e la Donnarumma si detestavano, la Mignonette nel 1931 doveva tenere alcuni concerti a Napoli, ma, sbarcando dal piroscafo, accorgendosi che sulle locandine del teatro Bellini il suo nome appariva nella stessa grandezza di quello della Resal, si indispettì e ripartì indignata. Ria Rosa, al secolo Maria Rosaria Liberti, era approdata al successo a 16 anni, nel 1915; da allora aveva partecipato a tutte le Piedigrotte fino al 1922 quando anche lei salpa per l'America. I suoi brani hanno un carattere acceso, la si potrebbe definire una femminista ante litteram, anche se in Italia, di li a poco, il regime fascista avrebbe bloccato qualsiasi velleità di emancipazione femminile. Sullo sfondo delle sue canzoni c'è Napoli, con le sue donne coraggiose fino alla protervia, aggressive e malandrine: quella caratterizzazione della figura femminile tipicamente napoletana che, all'interno della famiglia, hanno spesso fatto parlare della famiglia napoletana come un regime "matriarcale".


SANREMO, PROVINCIA DI NAPOLI
Forse non lo sanno in molti, ma esiste un precedente Festival di Sanremo, che si tenne una ventina d'anni prima che nascesse l'attuale presso il Casinò municipale della città ligure. Era un festival tutto partenopeo, a cui parteciparono quasi esclusivamente cantanti napoletani, e fu senza classifica e senza vincitori, trattandosi esclusivamente di una "passerella" di canzoni napoletane. Lo ideò il papà di Roberto Murolo; lo documenta la storia e lo racconta volentieri anche oggi il grande interprete partenopeo ultraottantenne. Correva l'anno 1931 ed il padre Ernesto col fido Tagliaferri decisero di esportare a Sanremo un festival di canzoni appunto tutte napoletane. Dal 24 dicembre al 1 gennaio del '32, con un cast niente male: Parisi, Ada Bruges, Maldacea, tanto per fare qualche nome. Quest'ultimo, ossessionato dalla passione per il gioco, bruciò alla roulette l'intero cachet che aveva ricevuto per la manifestazione....

La rassegna si concluse con Napule ca se ne va, un quadretto nostalgico di una Napoli d'altri tempi che, incalzata dalla modernità, stava proprio per scomparire. Ovviamente l'avventura finì lì, ma fra Napoli e Sanremo c'è un cordone ombelicale che non si è mai rotto, probabilmente non c'è edizione che non abbia almeno una voce partenopea in gara. Se scompariva la "vecchia Napoli" sociologicamente parlando, la sua musica però reggeva benissimo il passo, tant'è che negli anni trenta videro la luce alcuni dei suoi capolavori più celebrati, ad esempio Dicitenciello Vuje, lanciata da Vittorio Parisi, e Signorinella, in italiano, ma nata in ambito partenopeo, col testo frutto del genio musicale di Libero Bovio e la musica composta da Nicola Valente in una nottata passata in bianco per l'ennesima bastonata al poker. Il pezzo venne proposto a Pasquariello, il celebre interprete, che la rifiutò. La riteneva troppo triste, articolata e lunga "...chista nun è 'na canzone, è nu romanzo..." disse. Poco tempo dopo, Poco tempo dopo, dato il grosso successo, fu costretto a ricredersi ed a cantarla.

Degli stessi anni è Passione, anch'essa di Bovio, interpretata da Vittorio Parisi, l'ultimo tenore di Napoli, prima che cominciasse l'era dei microfoni. Anche questo pezzo ha il sapore di un addio ad un mondo, quello della Napoli dell'ottocento, che ormai appare scomparire irrimediabilmente. Un addio sottolineato tristemente anche dal fatto che, proprio in quell'anno, si spegneva Salvatore di Giacomo.


NAPOLETANI TAGLIATORI DI TESTE NERE
Una citazione particolare nel panorama della canzone partenopea merita senz'altro E.A. Mario, nome d'arte di Giovanni Gaeta, vuoi per la sua versatilità quale poeta e musicista, vuoi per l'incredibile mole di produzione. Acceso nazionalista e infervorato da moti patriottici (non tutti sanno che è sua, ad esempio, La leggenda del Piave, il famoso "...Piave mormorò, non passa lo straniero", che tanto entusiasmò finanche il Re; fino ad arrivare, sull'onda del regime imperante, a brani con testi a dir poco imbarazzanti, tipo Teste di moro, del '35, in piena avventura coloniale abissina, in cui si ascoltano passaggi di questo tenore: "....andremo in Africa sicuri e allegri / andremo a vincere contro quei negri / tra tante teste che mozzerò / una di queste ti porterò..". Ma questo appartiene all'aneddotica e sarebbe ingiusto ridurre l'opera di questo geniale e prolificissimo autore a tali episodiche cadute di gusto, alle quali del resto molti altri colleghi non furono certo immuni.

Citando solo alcuni dei suoi pezzi celeberrimi, ricordiamo Santa Lucia lontana, 'E duje paravise, Funtana all'ombra, Maggio si tu, e molte altre, interpretate dai più grandi artisti dell'epoca. La tipologia dei musicisti si amplia con l'avvento dei primi "cantautori"; Armando Gill, signorile intrattenitore con frac e monocolo, o Raffaele Viviani, drammaturgo di grande forza poetica e politica, creatore di brani di grande intensità come So' Bammenella 'e copp' 'e Quartiere o La Rumba degli scugnizzi. Chiudiamo il periodo dell'anteguerra ricordando 'Na sera e' maggio, grande successo di Piedigrotta 1938, lanciata anch'essa da Vittorio Parisi.


NAPOLI NEL DOPOGUERRA


Ha scritto Michele Straniero nel suo saggio "Antistoria d'Italia in canzonetta" che "Nella confusione che segue la fine delle ostilità, mentre si tirano le somme dell'immenso disastro, gli italiani si mettono a cantare con volenterosa allegria una canzone di tipo infantile, Dove sta Zazà: c'è dentro la festa di S. Gennaro, la banda per la via, aria di fiera paesana, e, in certo qual modo, di liberazione da un incubo attraverso la ripetizione sonora di due sillabe che evocano l'onomatopeico zum zum dei piatti d'orchestra. Gli scugnizzi, gli sciuscià, i superstiti della paurosa avventura cantano, ancora un po' storditi".

Magnifica descrizione per un quadro della Napoli che, uscita dall'immane dramma, ha ancora voglia di cantare. La canzone, scritta nel 1944, fu lanciata da Gigi Beccaria e subito ripresa da Nino Taranto, che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia. Zazà pare fosse l'appellativo delle "segnorine" che allietavano i soldati americani di stanza in Italia. Ma l'invocazione "Addò sta Zazà?" che ritorna ossessiva in tutto il brano chi invoca? La virtù delle ragazze napoletane, la libertà, la città che non trova più se stessa o tutte queste cose assieme?

Nello stesso clima nasce, anch'essa dal genio di E.A. Mario e sempre nel '44, l'amara eppure così ironica Tammurriata nera. A Napoli, durante l'occupazione americana, nacquero misteriosamente parecchi bambini neri. Perchè? "A volte basta solo 'na guardata / e 'a femmena è rimasta sott' a botto impressiunata", è la gustosa giustificazione.

Molto più triste, pur se nello stesso ambito, è Munastero 'e Santa Chiara, del 1945, portata per la prima volta al successo da Giacomo Rondinella. Rievoca il tremendo bombardamento del 4 agosto 1943, quando il cuore di Napoli venne squassato e, oltre al trecentesco Monastero, vennero sventrati molti edifici testimoni della millenaria storia partenopea. Ma, per analogia, il testo fa riferimento anche ai drammatici mutamenti che il dopoguerra ha portato nella morale e nei costumi dei napoletani, che appaiono irrimediabilmente corrotti.


IL TENTATIVO FESTIVALIERO


Sulla scia del neonato Festival di Sanremo, intanto, e sulla scorta del già ricordato primo festival sanremese tutto partenopeo, anche Napoli inaugura la sua rassegna, il suo festival, destinato a soppiantare la tradizionale Piedigrotta, che in effetti, si approssimava al capolinea. Il primo festival di Napoli, siamo nel 1952, si svolge nell'imponente cornice della Mostra d'Oltremare, ancora pregna di ubbie imperialistiche fasciste, e s'impone, guarda un po', Nilla Pizzi, fresca vincitrice sanremese, in coppia con Franco Ricci, con un pezzo intitolato Desiderio 'e sole, che lascerà scarsa traccia di se. Il Festival di Napoli si trascinerà per una ventina d'anni tra scandali, corruttele e intrallazzi, senza riuscire nel suo intento di fornire un rilancio alla canzone napoletana, contribuendo anzi a renderla vittima di quegli stereotipi che hanno seriamente rischiato di affossarla definitivamente. Il vero rilancio della canzone partenopea verrà in quegli anni da un gruppo di personaggi che, ognuno per suo conto, potrebbero anzi definirsi di "rottura". Conosciamone meglio qualcuno.


ARRIVANO I CANTANTI
Roberto Murolo, come già ricordato figlio d'arte del grande Ernesto, è per antonomasia il fine dicitore della canzone partenopea. La sua grazia e discrezione ne hanno accompagnato il successo in giro per il mondo, con la capacità di coinvolgere il pubblico nelle sue esibizioni e di rispettare l'ortodossia delle composizioni originali senza avventurarsi in spericolati "ammodernamenti". Dopo gli esordi, datati 1946, al Tragara club di Capri, dove si esibiva con l'inseparabile chitarra, Roberto passerà presto ai più prestigiosi prosceni capresi del Gaudeamus e del Quisisana, per poi approdare trionfalmente nei principali teatri mondiali, col suo repertorio ricco di classici, ma anche dei "nuovi" successi quali Anema e Core, Munasterio 'e' Santa Chiara, La pansé, Luna caprese, 'Na voce, 'na chitarra e 'o ppoco 'e luna.

Autore fortunato a sua volta, Roberto ha duettato con colleghi molto più giovani di lui, quali Pino Daniele, Enzo Gragnaniello o Renzo Arbore ed anche con artisti non-partenopei, ma comunque attenti all'evoluzione del mondo musicale napoletano, come Gino Paoli o Lucio Dalla, col quale resta memorabile un duetto in Caruso. Roberto sarà ai primi posti delle hit a ottant'anni suonati, in coppia con la molto più giovane Mia Martini alla quale dovrà tuttavia sopravvivere, in pieni anni novanta, con uno stupendo pezzo di Gragnaniello dal titolo Cu 'mme.

Renato Carosone, diplomatosi in pianoforte all'età di diciassette anni, cominciò la sua carriera alla fine degli anni trenta a Massaua e ad Addis Abeba, in Etiopia, dove più che a darsi da fare come invasore aveva preferito scalmanarsi in orchestrine di ristoranti e night clubs. Quando torna a Napoli, passata la guerra e sbollite le italiche paturnie colonialiste, fonda il 27 settembre 1949 con Gegè di Giacomo e Peter Van Wood il suo famoso trio, esibendosi allo Shaker Club di Napoli. L'incontro con Van Wood ha del comico: Renato, ingaggiato appunto dallo Shaker club non aveva musicisti da portare con sè, e, sentito parlare di uno strano chitarrista olandese che si esibiva nei circuiti dell'avanspettacolo romano con una incredibile chitarra elettrica a pedali (!!) lo andò a sentire e lo ingaggiò subito, anche perché l'istrionico chitarrista futuro astrologo sproloquiava in italiano, spagnolo, francese ed inglese, oltre ad un personalissimo slang che aveva inventato e che riscuoteva ilari consensi.

Per quattromila lire al giorno, il doppio di quanto percepisse a Roma, Van Wood era suo. Il trio cominciò presto ad interessare gli appassionati di musica, tanto che in breve tempo si trasformò in quartetto e quindi sestetto, ma il nucleo principale restavano sempre loro tre, almeno fino all'abbandono di Van Wood. Verso il 1957, il momento più felice della carriera di Renato, Gegè inventò quello che sarà uno dei leit-motiv delle loro esibizioni, la trovata che trasforma le canzoni in piccoli spettacoli, che iniziavano appunto col suo classico "Canta Napoli", proseguivano con interruzioni nelle quali venivano inseriti dialoghi buffi, originale anche l'uso di feticci che davano subito l'ambientazione per i pezzi, quasi dei video avanti lettera, come il turbante per Caravan petrol, o la penna da indiano per 'O pellerossa.

Carosone, accanto a queste innovazioni geniali, ha anche il merito di riprendere le vecchie canzoni napoletane e riproporle con una nuova, dirompente carica ritmica. Maruzzella, Tu vuo' fa' l'ammericano, 'O sarracino, Torero, impossibile elencarle tutte. All'improvviso, il 7 settembre 1959, dopo aver assaggiato anche la gloria americana, l'addio: durante la trasmissione "Serata di gala", presentata da Emma Danieli, Carosone annuncia: "ritengo che il mio genere sia ormai superato, è stato un piacere, addio amato pubblico". E sarà così fino al 1975, quando, altrettanto clamorosamente, tornerà al suo amato proscenio; in quella stessa Bussola di Viareggio, alla quale aveva dato un contributo decisivo per l'affermazione, avviene in diretta TV il clamoroso rientro, cui seguiranno delle apparizioni sanremesi. Di Van Wood abbiamo detto, oggi membro della carovana di giro televisiva di Fabio Fazio, definitivo invece l'addio alla musica di Gegè di Giacomo.

Più legato alla tradizione, anche se nelle sue accezioni più nobili, è invece un altro grande interprete degli anni cinquanta: Sergio Bruni, col suo particolarissimo stile, ricco di suoni vibrati, tremolanti, di effetti smorzati che lo rendono così riconoscibile.

I prodromi del "cambiamento", però, cominciano a vedersi con l'apparizione sulla scena di Giuseppe Fajella, alias Peppino di Capri. I più giovani stenteranno forse a crederlo, ma è senz'altro all'occhialuto Peppino che va assegnata la palma di primo cantante rock italiano. Ancora lontano dal diventare un interprete confidenziale, un sempreverde della canzone italiana, Di Capri esordisce con un personalissimo e innovativo stile, rifacendosi a classici rocker americani dell'epoca ma con un timbro nasale, tutto suo. Il suo avvento è una rivoluzione nella canzone partenopea, via gli svolazzi melodici, le vocine, i retaggi del romanticismo più trito, scopre che può coniugare la sua napoletanità col rock ed il twist dell'ultima moda.

Si cimenta anche, con pari successo, nella rilettura dei classici Voce 'e notte, o Pescatore 'e Pusillepo. Vince negli anni '70 un paio di Festival di Sanremo e, con l'età, si trasformerà appunto in un "crooner", con uno stile più melodico ma sempre al passo coi tempi e consono alle sue passioni musicali.


LA CRISI
Si noterà che, già da Peppino, abbiamo smesso di circoscrivere l'ambito musicale degli artisti alla sola Napoli: dagli anni sessanta, infatti, entriamo in un periodo di crisi profonda della canzone napoletana. I pochi artisti validi preferiscono prosceni nazionali, italianizzandosi ed italianizzando i propri brani. I "resti" di quella che è stata la tradizione più feconda di musica melodica nell'idioma partenopeo si trova immiserita e costretta in festival della camorra e del cattivo gusto, in squallide feste di piazza all'insegna dello scimmiottamento di vecchi canoni melodici proposto da interpreti per lo più inadeguati.

Maurizio Targa