di Mario Bonatti
Innanzitutto c'è un brusco ritorno indietro per quanto riguarda la gara tra i Big: evidentemente non faceva piacere rischiare di essere eliminati specie quando a cantare erano cantanti da anni lontani dalle vette delle chars, che quindi dovevano rilanciarsi e necessitavano quantomeno di un numero di passaggi televisivi superiori a uno. Quanto ai Giovani, da quest'anno inizia la rincorsa alla bella voce, al cantantino intonato da piazzare magari anche in contesti situati a latere del mercato discografico (musical per esempio), prediligendo dunque le ugole alla validità delle proposte artistiche. Laura Pausini fa già scuola, e se per l'astro nascente sarà gloria e successi mondiali, questa ondata di pausinismo non farà che impoverire l'offerta di buona musica, lasciandola fatalmente fuori dal teatro Ariston al punto da confondere per oggetti misteriosi coloro i quali sapranno navigare controcorrente, col coraggio delle loro idee. Questa tendenza durerà per almeno un lustro, portandosi dietro un cumulo di canzoni inutili.
CAMPIONI Dunque restano le giurie popolari dislocate nelle sedi Rai ma i campioni ritornano intoccabili: soltanto la graduatoria finale darà una sorta di verdetto più o meno attendibile sui gusti del pubblico. Per questa volta le classifiche saranno anche in prevalenza fedeli al valore delle proposte, ma ciò è dovuto alla scarsezza di proposte fresche, comprese quelle che di solito si accomodavano in coda solo perché poco conosciuti o troppo esclusivamente rivolti alle fasce giovanili. Trionfa Aleandro Baldi: a due anni da "Non amarmi", arriva un'ennesima promozione a vincitore dei Big da parte di chi aveva vinto tra i Giovani. Premio meritato per la sensibile vena creativa di questo cantautore che affidandosi in toto al suo talent-scout Bigazzi, finirà col perdere la propria individualità artistica. La canzone vincitrice, Passerà, non manca di respiro lirico e una gradevole interpretazione, benché non eccessivamente originale nella tematica delle canzoni che nascono nell'aria e da cui gli uomini traggono benifici psichici e spirituali. Canta che ti passa, in parole povere. E sta bene: del resto era difficile trovare un alternativa valida a Baldi per l'alloro finale, considerando che le canzoni più notevoli non le si fa vincere neanche a fucilate. Ecco che al secondo posto giunge a sorpresa un volto nuovo e inatteso del cantautorato: dal cabaret dello Zelig, Giorgio Faletti da Milano, diventa il vincitore morale della manifestazione con Signor Tenente. Dopo la comparsa di due anni prima nella semiseria proposta con Orietta Berti, che gli è servita da filtro per passare dall'una all'altra dimensione artistica, lo stempiato autore fa centro con un recitativo preceduto da una breve quanto ermetica introduzione: senza rinnegare dunque la sua vena di trsaformista e giullare della gente comune italica, dà la parola a un ipotetico carabiniere dallo spiccato accento meridionale, che senza rinnegare né la propria provenienza rustica né il suo senso del dovere a volte fiscale, ha un moto di stizza (un'esclamazione volgare sicula "Minchia…") di fronte a chissà quale ordine del suo superiore, in quanto sgomento per la notizia di un vile attentato nel quale alcuni suoi colleghi hanno perso la vita. Un omaggio dichiarato alle vittime ultime degli efferati attentati a Falcone e Borsellino, giocata su una base di semplici accordi e una serie di parole rimate ma senza perdere una certa discorsività di fondo. Un plauso alla scelta originale va comunque riconosciuto, anche se le giurie non hanno mai dimostrato di essere allergiche alla lacrimuccia facile: inoltre il ricorso al dialetto fa apparire trascurabile l'uso di una parola volgare che certo in italiano avrebbe suscitato scandalo se non fosse stata persino bocciata. Vincono i sentimenti, e anche i soliti canovacci: ecco un altro momento di gloria per la Nuova Proposta dell'anno passato. La Pausini non muta la propria identità e propone (lo farà in pratica ad libitum) il suo cliché melenso per adolescenti dal cuore tenero: il suo team di autori, che ruota intorno a Roberto Valsiglio, fa a pugni con le figure retoriche, confidando nella scarsa perspicacia dei fan di Laura, ed ecco che Strani amori diventa un evergreen che darà un saggio di quello che il pubblico desidera in questi momenti di riflusso della canzone italiana, ovverossia una paccottiglia sulle cotte postpuberali. Grande dispiego di ottave e nulla più di rilevante, ma il cliente ha sempre ragione. Anche gli altri piazzamenti odorano di età adolescente (come direbbero i Nirvana!): Gerardina Trovato, assurta a Big, tradisce un pochino le attese con una canzone ispirata con un pizzico di demagogia alle guerre civili in corso nell'Europa orientale. Non è un film è un pezzo rock, sincero e gradevole, ma in parte è un'occasione persa per affrontare un argomento delicato con diversa abilità, che Gerardina saprà mostrare negli anni seguenti. Vittoria morale anche per Michele Zarrillo che mette da parte la sua vena rock, e si candida a menestrello dei sentimenti dei postadolescenti: Cinque giorni trasuda degli stati d'animo di persone tra i 20 e i 30, che soffrono si lacerano e elucubrano su come sarebbe il caso di soffrire meno possibile e ad ogni costo. Canzone un po' deboluccia e melodrammatica, ma musicalmente valida che il pubblico amerà, forse in virtù di alcune frasi di forte impatto emotivo ("Come farò a rassegnarmi a vivere / Eppure io che ti amo / Ti sto implorando / Aiutami a distruggerti"). Dicevamo di una kermesse povera ma di una classifica veriteria: ecco che nelle posizioni di rincalzo troviamo le poche proposte degne di nota. A cominciare da un Enzo Jannacci in grande spolvero che si fa accompagnare dal comico Paolo Rossi e da una partitura sincopata: una coppia che scoppia e che dice la sua, con garbo e affilata ironia, sugli scandali di Tangentopoli detti anche I soliti accordi, confusi con quelli musicali che forse a Sanremo sono altrettanto consueti, all'insegna del detto: "è sempre la stessa musica". Ma il discorso è concentrato a sbertare le figure di una classe dirigente non identificata ma identificabile, che confessa, ritratta, giura e spergiura e resta soprattutto impunita. Il ricorso a "Forza Italia", in pieno Governo Berlusconi, è censurato su richesta dell'Organizzazione, costringendo Jannacci a pronunciare al suo posto una cosa qualsiasi, nel suo già abitudinario cantare a soggetto (esclamerà anche "Viva Baudo"). Una ventata di buon umore e di lotta alle convenzioni viene anche da Ivan Graziani, che prende di mira la nutrita classe dei perbenisti e malpensanti, riferendosi forse a un episodio legato alla sua quotidianità: le Maledette malelingue non sanno vedere senza malizia il fatto che una ragazza di 15 anni frequenti la casa di un adulto, insinuando a priori chissà quali congressi carnali. Non era certo sconosciuto l'affetto paterno che legava Ivan al suo pubblico più giovane, al quale dava continuamente voce nelle sue canzoni sempre lucide e mai qualunquiste riguardo ai problemi della giovane età, fino a dare loro la possibilità di dire la propria durante i suoi concerti, offrendo loro il microfono tra una canzone e l'altra. Una frecciatina ai matusa e agli invidiosi è dunque questo pezzo divertente e coinvolgente, da parte di un cantautore che ci lascerà il Capodanno del 1997 dopo aver combattuto strenuamente contro un male incurabile. A metà classifica ecco dunque un terzetto di vecchie glorie: oltre al ritrovato blues di Andrea Mingardi con una Amare amare in sintonia col suo stile più raffinato, ecco il ritorno di Rettore con una delicatissima Di notte specialmente, suadente canzone d'amore che rinnova la sua classe che ha sempre mantenuto anche nel suo periodo più trasgressivo e ridanciano, ritorno dopo otto anni, quasi al pari di Marco Armani che tenta invano un rilancio di sé ricostituendo l'accoppiata che lo fece conoscere dieci anni prima, quando scriveva con un Luca Carboni ancora sconosciuto. Esser duri è una situazione pop niente male, non sufficiente per gridare al miracolo ma almeno per distinguersi da questa massa gelatinosa. Chiude la fascia protetta la sempreverde Mariella Nava, che si rifugia con felice esito nei suoni etnici, nelle origini saracene del suo Sud, unificandolo in un'unica entità alla maniera di Rino Gaetano, riuscendo a partorire questa Terra mia una struggente poesia d'amore dedicata alle proprie radici, con tanto di ritornello in dialetto siciliano e strumenti ricercati. Quel che resta è davvero poca roba, con poche eccezioni su cui soffermarsi in coda: la obsoleta Formula Tre parla di extracomunitari ma senza colpire nel segno con questa lenta e faticosa La casa dell'imperatore che vede Mario Castelnuovo tra gli autori; Alessandro Canino chiude la sua breve carriera con questa sorta di autogol che gli fa intonare Crescerai, ma a dispetto del titolo conferma che, malgrado il nuovo taglio di capelli senza quei ridicoli riccioli, la sua musica continua ad assomigliare troppo a sé stessa fino ad annullarsi in un spontaneo aborto d'oblio. Ultimo gettone anche per Francesco Salvi che con una mediocre benché ritmata Statènto esaurisce il suo simpatico discorso con una vacua canzone sul mammismo che cova nella società. E anche Carlo Marrale, transfuga dai Matia Bazar, non va oltre le buone intenzioni con un annacquato jazz che parla di una relazione molto accesa che tuttavia con L'ascensore dalla ambigua similitudine rimane comodamente al piano terra. Non manca neanche la vecchia guardia, rappresentata con un progetto inedito capace di radunare in un'unica canzone ben undici cariatidi della canzone nostrana. Ecco dunque Squadra Italia, alla vigilia dei Mondiali di Calcio: capitanati dalla Regina della Festival Nilla Pizzi che torna a Sanremo dopo ben trentraquattro anni e 31 canzoni in nove edizioni, ecco sfilare Wilma Goich (assente da venticinque anni), Tony Santagata (da ventuno), Rosanna Fratello e Wess (diciotto), Jimmy Fontana (dodici), Giuseppe Cionfoli e Gianni Nazzaro (da undici) e gli "esordienti" esponenti folk Lando Fiorini e Mario Merola, insieme a Manuela Villa, figlia ancora ventenne del Reuccio Claudio. Cantando un versetto ciascuno e il ritornello all'unisono rievocano la tradizione melodica dei nostri genitori (o nonni) con un pezzo di Artegiani & Marrocchi, gli stessi di "Perdere l'amore", orecchiabile e in fondo anche sincero, da non bocciare in modo pregiudizievole, perché in fondo questa subliminale propaganda al Gerovital (tra i cui testimonial bisognerebbe fare opportuni distinguo sul lato strettamente artistico…) è spontanea e innocua ed in fondo Una vecchia canzone italiana è una dignitosa serenata d'addio alla musica che per anni ha popolato il Festival (per essere rimpiazzata da cosa, poi?), incurante del penultimo posto ottenuto. Sicuramente meglio del fanalino di coda Franco Califano, troppo appesantito nella parte più lirica del suo genere popolaresco attraverso questa pallida benché accettabile lode alla città di Napoli, e di Claudia Mori che con la complicità del mai caduco Toto Cutugno torna dopo il successo del 1970 in coppia col marito Adriano, facendo finta di fare la cantante in una lambada pretenziosa e più volte masticata (in altre parole: una pessima canzone!) dal titolo Se mi ami con smargiassi cori da "mediterraaaaneoooo". Un discorso a parte va ascritto a Loredana Berté, non più ospite fissa delle classifiche, ma alla prese con una degna sopravvivenza del suo genio: il pubblico non sempre la capirà come merita, a partire da questa Amici non ne ho, pop fuori dagli schemi che può piacere o no, ma sicuro mette in risalto la personale e per questo lodevole scelta di Loredana di seguire la sua strada, il suo istinto di artista, come denuncia anche il titolo di questo pezzo, fin troppo viscerale da non sospettare un certo ricorso autobiografico. Doveroso chiudere la carrellata con il genovese Alessandro Bono, al secolo Pizzamiglio che di lì a qualche mese morirà di Aids. La sua canzone Oppure no è un suo mesto addio alla vita che sarà recepito soltanto postumo. Non a caso Alessandro si presenterà già affetto (ma senza renderlo noto) dalla sindrome, e in piena terapia, facendo sforzi sovrumani per essere presente, sforzi che saranno interpretati come rilevatori di scarso impegno o scarsa bravura (ci sarà anche una serie di stecche). Le parole di questo suo pezzo sono lucide e ispirate, anche se su una ritmica acustica e poco appariscente. Forse il contributo di Bono al pop italiano non è stato così determinante, ma in fondo era giusto che ci fosse un piccolo spazio anche per lui, e la sua umile uscita di scena ne rende amara testimonianza.
NUOVE PROPOSTE Ma saranno davvero nuove queste proposte? Le perplessità sono davvero tangibili: il rock è l'illustre assente tra queste sedici pedine, con l'unica eccezione di Irene Grandi. Anche le situazioni degne di essere ricordate sembrano navigare controcorrente, come dimostra il vincitore Bocelli (direzione melodramma), l'esordiente Giorgia (di scuola jazz) e il Premio della Critica con gli esotici Baraonna. In mezzo, tante belle voci e poche belle canzoni. Vince dunque Andrea Bocelli, cantante toscano non vedente (curiosa coincidenza con l'altro vincitore Baldi…), dalla voce tenorile liricamente impostata. Dopo una gavetta a supporto di Zucchero, per il quale cantava "Miserere" facendo le veci di Pavarotti, eccolo all'esordio, giocoforza con una situazione romanzata, molto bene orchestrata dal maestro Celso Valli, dosata sapientemente con pieni e vuoti e acuto finale. Il mare calmo della sera ci riporta indietro di anni, facendolo comunque con cognizione di causa e echi di garbato crepuscolarismo. La sensazione che sia nata una stella è fin troppo evidente, evidenziata dal fatto che nelle posizioni di rincalzo figurano illustri comparse quali una stantia Antonella Arancio, con Ricordi del cuore", pezzo di una piattezza sconcertante e un ex-corista assurto a voce singola, tale Danilo Amerio, protagonista di Quelli come noi, una lacrimevole storia di "figli di figli degli operai". Voce graffiante e fisico pingue, ma non basta davvero. Fortuna che c'è Irene Grandi. L'esordio della cantautrice toscana non mancherà di farsi notare tra il pubblico dei teenager più maturi, ai quali si era già presentata mesi prima con "Un motivo maledetto" quanto accattivante; questa Fuori colpisce per la sua spregiudicatezza, la voce prepotente, una disinvoltura da consumato animale da palcoscenico e un tappeto pop-rock di sicuro affidamento. Un astro nascente dunque, ben lungi dall'emulare la Gianna Nannini. Edizione povera di contenuti ma in grado di battezzare personaggi in grado di entrare nell'olimpo della canzone: del resto c'è pur bisogno di un certo ricambio anche a livello delle cosiddette Signore della canzone. E dunque la romana Giorgia Todrani, presentandosi solo col suo primo nome, dopo essere cresciuta alla scuola jazz del Testaccio, si cimenta nella musica leggera e colpisce il segno con questa affascinante E poi, che non rinnega le sue origini, e risulta un ideale biglietto da visita per le sua voce che non tarderà a farsi amare da una estesa fascia di pubblico, anche se non sempre riuscirà a scegliere belle canzoni a Sanremo e al di fuori. Credenziali di ferro comunque per un personaggio antidivo per eccellenza e figlia d'arte essendo suo padre, oltre che il suo primo manager e maestro, niente meno che Giulio Todrani, componente maschile del famigerato duo vocale Juli & Julie che collezionò un discreto numero di successi da bubblegum nella seconda metà degli anni 70. Cos'altro resta? Nel panorama di belle voci, spicca quella calda e avvolgente di Francesca Schiavo, voce femminile nell'Orchestra Italiana di Renzo Arbore che presenta Il mondo è qui, altra canzone romanzata che fa trasparire un certo talento che però non avrà un seguito. Altrettanto può dirsi della marchigiana Tania Montèlpare, in arte Lighea, che tenta una via originale della musica al femminile con un visino dolce e suoni gradevoli e questa Possiamo realizzare i nostri sogni, ben riuscita malgrado la tematica delle utopie giovanili. Dopodiché resta davvero poco: molti dei giovani sono cantautori, ma ciò non basta per garantire un certo valore. Silvia Cecchetti con Il mondo dove va, Giò Di Tonno con Senti uomo, Daniele Fossati (autore del pezzo di De André, secondo nel 1993) con Senza un dolore, la country Daniela Colace con Io e il mio amico Neal e la voce blues Simona D'Alessio con È solo un giorno nero, sono canzoni gradevoli e dai testi interessanti ed esistenzialisti che però non vanno oltre i primi ascolti e non lasciano tracce così determinanti nella corteccia cerebrale. Deludenti sotto ogni profilo invece Paola Angeli con Cuore cuore (una sorta di look alla Tamaro, canzone compresa), Joe Barbieri con Non spegnere i tuoi occhi (ritmo spuntato) e Valeria Visconti con Così vivrai (solo la voce!). Brutta prestazione anche per Franz Campi che tenta senza risultato di fare accettare la sua vena ironica e scanzonata, mostrando poverà di idee sia con questa Ma che sarei (già, bella domanda!) e con una certa "Beatrice" lanciata successivamente, consolandosi con le royalties che gli pioveranno di rendita per il suo unico exploit d'autore, cioè quel mambo "Banane e lampone" che è diventato un pezzo da 90 nel repertorio di Gianni Morandi. In questo clima di uniforme melassa, impossibile che le giurie potessero trovare refrigerio nel folk. Infatti va a casa il trio vocale delle Paideja, che tenta davvero una strada impervia con questa Propiziu ventu in dialetto della Basilicata: stessa sorte per il quartetto napoletano dei Baraonna, tre ragazze e uno ragazzo diplomati al conservatorio che ottengono il riconoscimento della stampa e successivamente degli addetti ai lavori sia con questo quadretto orientale che dipinge I giardini di Alhambra, sia per il loro straordinario mélange di voci e le scelta felice delle soluzioni esecutive, il classico pezzo di qualità che i giurati non vogliono o non sanno capire. Ed è davvero tutto, ossia davvero poco.
GRADUATORIA PERSONALE: 1) Terra mia 2) I soliti accordi 3) Di notte specialmente Nuove Proposte 1) Fuori 2) E poi 3) I giardini d'Alhambra
SHIT SANREMO:
FRASE DELL'ANNO:
PERLE DI SAGGEZZA: MARIO BONATTI
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