La barba lunga, incolta, di Francesco Di Giacomo per esempio. Voce sottile, squillante dai toni alti, epici, dava al Banco del Mutuo Soccorso la fierezza di un linguaggio popolare in ogni respiro musicale; la chitarra di Francone Mussida accomodata sulla coscia destra mentre la Premiata Forneria Marconi intonava “Dolcissima Maria”; le bacchette profumate di Michi Dei Rossi delle Orme, che diventavano feticcio per chiunque le raccogliesse al volo, a fine concerto; Stefano Urso, bassista del Rovescio della Medaglia: arrotolava alle sue dita metri di scotch prima della sua sua spettacolare performance. E, ancora gli Osanna, Napoli Centrale, venuti fuori dalle ceneri di una città che di lì a poco avrebbe dato contributi importanti alla musica d’avanguardia, pop e rock come Alan Sorrenti (Aria, Come un vecchio incensiere…), Pino Daniele (Terra mia), Nuova Compagnia, Musicanova, musicisti come Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Toni Esposito, cantautori come Edoardo Bennato, Jenny Sorrenti, Teresa De Sio (ai tempi con Eugenio Bennato, transfuga di NCCP, in Musicanova). Pochi scatti fotografici della memoria e il riassunto del pop anni ’70. Immagini, sensazioni straordinarie. Il pop era già grande, il resto era piccolo così. Ce ne siamo accorti troppo tardi, come spesso accade. Non esistevano ancora le radio private, l’approccio con i miti di allora era con le pagine di Ciao 2001. Miti senza presunzione: Francesco Di Giacomo, Vittorio e Gianni Nocenzi del Banco, prima di un concerto, si rimboccavano le maniche, spingevano i cassoni impolverati con in pancia la strumentazione. Fino alla metà degli anni ’70 ogni piccolo cinema-teatro di provincia, rappresentava il Parco Lambro di Milano o le Terme di Caracalla di Roma. Era lì, infatti, che si spostava a spallate la musica, la politica in doppiopetto. Oggi ci fanno sorridere i compensi di quei gruppi: un milione di lire, un milione e mezzo al massimo. Dai cinquecento ai mille posti a sedere, scale per arrivare in piccionaia e guardare a strapiombo la pelata di Claudio Fasoli del Perigeo mentre soffia dentro il clarinetto per “Azimut” o “Abbiamo tutti un blues da piangere”. In ogni caso erano due gli spettacoli: alle cinque e alle nove di sera. Sempre pienone. Per ingannare l’attesa, consentire ai tecnici gli ultimi controlli a spinotti, cavi, microfoni, si assisteva alla proiezione di filmati di Woodstock con ruvide clip di Hendrix e Pink Floyd. Quattro ore di musica, due per spettacolo, una faticaccia per i musicisti. E tutto per restare nelle spese. “Ma non abbiamo mai sentito il peso della fatica”, diceva Di Giacomo, “un po’ perché amavamo suonare, e avremmo fatto qualsiasi cosa pur di farci sentire; poi perché venivamo da una cultura controfighetta: non ci risparmiavamo, davamo l’anima dentro e fuori dal palco”. Negli Ottanta i ragazzi avrebbero amato la discoteca, ma quella che si sentiva in quegli anni, era ‘live’, musica (vera) per le orecchie. Fila alle due, due e mezzo del pomeriggio con in mano banconote da mille, cinquecento, monete da cento e cinquanta lire, gli spiccioli: il costo del biglietto d’ingresso oscillava dalle mille alle millecinquecento lire, duemila lire (il costo di quattro, cinque pacchetti di sigarette di allora). Piccoli e grandi sacrifici, per guardare in faccia quei personaggi, protagonisti delle giornate di migliaia di ragazzi incollati allo stereo di Selezione. A fine concerto, l’attesa all’uscita. Un po’ di pazienza e venti minuti dopo, Orme, Banco, Premiata, New Trolls, Perigeo, Osanna, Rovescio. Non c’era la security di oggi. Funzionava così, intorno a mezzanotte l’uscita, e loro, più o meno sempre: “ancora qui, ma non ce l’avete una casa?”. Oppure, “conoscete un ristorante, una pizzeria ancora aperti a quest’ora?”. Non erano in molti i ristoranti aperti alle undici, a mezzanotte. Quei capelloni non spendevano molto e allora, “quelli lì” non li voleva nessuno. Altra musica qualche anno più tardi. Ristoranti spalancati per i Pooh, Vasco, Baglioni, recentemente con Antonacci, D’Alessio, Ramazzotti, Pausini. Anche fino alle tre di notte, le quattro volendo. In cambio una foto-ricordo. Quando trovavano il giusto interlocutore, perché tutti questi gruppi amavano la musica ventiquattr’ore al giorno, l’appuntamento era il mattino seguente davanti all’albergo per un caffè al bar vicino. Il teatro di provincia era sempre lo stesso di tutte le province. Aveva di solito poltroncine alte, morbide, rivestite in similpelle, con dentro gommapiuma. Comode, da sprofondarci. Qualche vandalo ci infilava dentro le dita per tirarne fuori brandelli di spugna. Era sempre un problema tornarci per vedere i concerti. L’acustica era migliore di tanti palazzetti (che non sono nati per ospitare la musica, sia chiaro). Ma forse non c’erano le stesse pretese di oggi. Chi arrivava in ritardo ripiegava per un posto nel corridoio centrale, in platea. Le alternative erano gli scalini in galleria, oppure, in piedi, nel piano appena rialzato. Andava bene così: non esistevano biglietti numerati, ma in compenso c’erano i portoghesi. Qualcuno l’ingresso se lo strapagava già al mattino, con il facchinaggio: una mano in cambio dell’ingresso, gratis. Niente scuola e non perché non ci fossero lezioni o gasolio per il riscaldamento: c’era il concerto, punto. Libri e quaderni sottobraccio, bus (il normalissimo “pullman”) e fermata nei pressi del cinema-teatro. E via il primo rituale: la “posta”. Davanti al camion della strumentazione. Subito amicizia con quelli che scaricavano gli strumenti. Erano loro stessi, sfiniti, a chiedere “ragazzi, se ci date una mano stasera vi facciamo vedere il concerto!”. Maniche rimboccate, spintoni ai cassoni, facendo molta attenzione a quelli che custodivano gli strumenti. Ma non finiva lì. Occorreva superare l’esame-maschera, o lo strappabiglietti. Fare attenzione al al macchinista, cui spettava l’ultima parola. Era lui, al mattino, che si vestiva di autorità e sentenziava: “questo va bene, questo va bene, questo no, ha la faccia da mariuolo…”. Una selezione repentina, senza repliche. Sentenze da Cassazione: diversamente, se volevi vedere il concerto dovevi “calarti” una mano in tasca e tirare fuori un Giuseppe Verdi su fondo bianco (che nostalgia…). Mille lire un concerto, cinquanta lire un biglietto del pullman. Cinquanta lire, quanto una busta di patatine o una coppia di “gemelli” (i cremini di un tempo…). Nascondino. Alla fine del primo concerto, quello pomeridiano, c’era che si nascondeva fra le poltrone, fra le pieghe di una tenda, nel bagno, per assistere al secondo spettacolo e risparmiare la “mille”. Chi passava in rassegna il teatro a fine spettacolo ogni tanto ne pescava qualcuno. Qualche volta sorvolava, altre volte accompagnava lo sfortunato portoghese all’ingresso. Quei ragazzi dei primi anni ’70, non facevano baccano. Qualche piccolo danno quello sì, ma per il resto ragazzate. Il pubblico era per la maggior parte di studenti. Poi gli altri, quelli che preferibilmente stazionavano fra piazze, angoli e bar del centro. Gli studenti li incrociavi allo “struscio” sabato e domenica, ma solo il pomeriggio. Poi casa, a studiare. Non c’era il debito e, dunque, dovevi darci sotto. Fra le mani, i ragazzi avevano audiocassette “C 60” o “C 90” e dischi, per risparmiare qualcosa riproducendoli su nastro. “Collage”, “Uomo di pezza” e “Felona e Sorona” delle Orme erano gettonatissimi. Lo stesso “Per un amico”, “L’isola di niente” e “Chocolate Kings” della Premiata, oppure “Banco del Mutuo Soccorso” (quella con la copertina di cartone a forma di salvadanaio oggi vale una fortuna…), “Darwin” e “Io sono nato libero” del Banco. E ancora “Palepoli” degli Osanna, “Concerto Grosso” dei New Trolls, “Contaminazione” del Rovescio della Medaglia. Questo il bello del pop anni ’70. Ma, finita quell’epoca, scattano i titoli di coda. E il caro teatro di provincia che non c’è più, si aggrappa con i denti, le unghie, a quello che può. Film di second’ordine, soft core, poi hard. E ancora, sceneggiate napoletane e riviste scosciate. Adesso al suo posto c’è un garage o un supermercato. La musica è cambiata e da un giorno all’altro anche è scomparso, inghiottito insieme alle note di New Trolls, Pfm, Banco, Osanna, Delirium, Rovescio. Claudio Frascella
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