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EMIGRAZIONE: QUANDO ERAVAMO EXTRACOMUNITARI
Italiani, popolo migrante: un fenomeno certo antico, ma che negli ultimi
decenni dell'ottocento ha assunto caratteri di vero esodo. Un esodo
biblico, che nell'arco di un secolo, dal 1876 al 1976 (cioè dal momento
in cui si cominciò a tenere i conti di quanti se ne andavano fino a
quello in cui i rientri e gli arrivi di immigrati stranieri diventarono
superiori alle partenze) ha visto il nostro Paese perdere quasi 27
milioni di persone. Pari agli abitanti della penisola al momento
dell'unità d'Italia. Spesso se ne attribuiscono
superficialmente le cause al sovraffollamento del nostro meridione,
tuttavia ad un'attenta analisi statistica risulta che il tasso di
crescita demografica del nostro paese nel decennio 1870-80 fu dell'1 per
cento, passando da 27 a 28 milioni di abitanti, percentuale in linea con
la media europea. Le ragioni vanno ricercate altrove: la
principale fu il richiamo esercitato dal continente americano, che col
suo dirompente sviluppo industriale invocava braccia da lavoro, anche
non specializzate, che i proletari delle aree più depresse offrivano a
profusione. "Datemi i vostri poveri", tuonava il paese dello zio Sam, ed
i poveri dall'europa rispondevano in massa.Il fenomeno dell'emigrazione
che era stato fino ad allora tutt'altra cosa, riguardando solo gli
italiani del settentrione, che stagionalmente si spostavano nei paesi
frontalieri, coinvolse le masse meridionali, ed assunse carattere
definitivo. In pochi anni nei decenni a cavallo tra la fine
dell'800 e l'inizio del nostro secolo furono quattro milioni i nostri
connazionali che si diressero verso gli Stati Uniti, in particolare New
York raccolse circa un terzo dell'intera cifra. Paradossalmente, sarà
proprio questa gente povera, espulsa dal mercato del lavoro del proprio
paese, che con le loro rimesse dall'estero (pari al 50% attivo della
bilancia dei pagamenti) permetterà l'importazione delle materie prime e
i beni capitali che necessitarono alla nascente industria italiana.
L'emotività del nostro popolo dette a questo fenomeno un carattere
melodrammatico, l'emigrante diventò l'eroe di una saga popolare intrisa
di pianto, che enfatizzava la condizione del meridionale come di un
popolo reietto. Molti pezzi musicali simboleggiarono questa epopea.
Vediamone qulcuno.
Mamma mia dammi cento lire
che in America voglio andar
cento lire te le do, ma l'America no no no...
oltre alle rimarchevoli "cento lire" che servivano allora per il
viaggio, evidenzia l'angoscia della mamma conscia che, partito il
figlio, difficilmente l'avrebbe rivisto. Ma molte mamme non riescono a
fermare il proprio figlio, che di alternative alla fame nella sua terra
ne trova ben poche. Al 1868 si deve tuttavia "Addio a Napoli",
in seguito nel repertorio di Caruso, Murolo, Dalla e De Gregori,
che s'impernia sul tema dell'addio dell'emigrante alla sua terra natia.
Il 6 agosto del 1906 dal porto di Genova partiva il vapore Sirio, una
delle navi più moderne della flotta italiana, con a bordo circa 2.000
emigranti che andavano in America. Il vapore viaggiava a 17 nodi l'ora,
una velocità ancor oggi considerevole, e, per abbreviare il viaggio,
seguì una rotta molto vicina alle coste spagnole. Il 9 agosto urtò
contro uno scoglio che si trovava alla profondità di circa 3 metri e
incominciò un lento inabissamento. Il Sirio impiegò venti giorni per
affondare definitivamente, ma la paura e la disorganizzazione presero il
sopravvento e finirono annegate o disperse circa 300 persone per la
compagnia assicurativa, oltre 700 per i giornali dell'epoca.La ballata è
molto diffusa in tutto il nord Italia.
E da Genova il Sirio partivano
per l'America, varcare, varcare i confin .
…
E da bordo cantar si sentivano
tutti allegri del suo, del suo destin.
Urtò il Sirio un orribile scoglio
di tanta gente la mise, la misera fin:
Rende molto bene l'idea di quello che fu un nostro Titanic,
colpevolmente poco noto forse perchè non sfavillante come il più celebre
e maestoso transatlantico. Il tema del Titanic, molto prima del
film di James Cameron, era stato ripreso da De Gregori in un suo celebre
pezzo, che esula da questa monografia in quanto ricostruzione in chiave
storiografica.
E' del 1919 "Santa Lucia lontana", che ben presto diventerà l'inno degli emigranti:
Partono e' bastimenti
pe' terre assai luntane
cantano a buordo: so' napulitane
cantano pe' tramente
'o golfo già scumpare
e 'a luna mmiezz 'o mare
nu poco 'e Napule
lle fa vedè
Questo, appunto, assieme a "Trenta giorni di nave a vapore" uno
dei pezzi che meglio esprime l'angoscia dell'addio alla propria terra.
Arrivati laggiù, la morsa della nostalgia stringe l'anima:
E ce ne costa 'e lacrime st'Ammerica
a nui napulitane
Pe' nui ca ce chiagnimme 'o cielo 'e Napule
comm'è ammaro 'stu ppane
"Lacrime napuletane", appunto. Ma l'emigrante non è solo
napoletano, anche se la componente partenopea o comunque meridionale è
ovviamente preponderante. Qualche contributo sul tema di diversa
provenienza regionale; una celeberrima
Ma se ghe penso
alloa mi vedo o ma,
veddo i mae monti
e a ciassa da Nonsià
rivedo o Righi
e me s'astrenze o cheu;
che, ripresa in epoche successive da Bruno Lauzi, Gino Paoli e da Mina,
esprime la nostalgia per la Genova lontana.
un canto trentino (si emigrava pure da li!)
Vuoi tu venir Giulietta
vuoi tu venir con me
vuoi tu venir in Merica
a travagliare con me.
Mi sì che vegniria
se 'l fus da chi a Milan,
ma per andare in Merica
l'è massa via lontan.
sicuramente poco noti, ma significativi: dal bellunese
Trenta giorni di macchina a vapore,
nella Merica ghe semo arrivati,
ma nella Merica che semo arrivati,
no' abbiamo trovato nè paglia nè fien.
E Merica, Merica, Merica, cossa saràla 'sta Merica?
Merica, Merica, Merica, in Merica voglio andar.
Abbiam dormito sul nudo terreno
come le bestie che va a riposar
E' la Merica l'è lunga, l'è larga,
circondata da fiumi e montagne,
e co' l'aiuto dei nostri italiani
abbiam formato paesi città.
che esprime il disagio dell'emigrante misto all'orgoglio per il
contributo dato allo sviluppo di quel paese lontano.
Fermandoci in Veneto, eccone uno incredibile, se rapportato ai giorni
nostri: chi direbbe oggi, nell'opulento nord est, terra promessa di colf
e badanti d'oltrecortina che un tempo l'emigrazione avveniva nell'esatta
direttrice opposta? Un canto del bellunese recita
Andiamo in Transilvania
a menar la carioleta
che l'Italia povereta
no' l'ha bezzi da pagar.
E già, dal triVeneto si emigrava in Romania soprattutto nella zona di
Craiova.....a quei tempi il ricco nord est era molto piu' povero della
Romania, c'è da pensarci a fondo.
Del 1927 è la tristemente profetica "Miniera", di
Bixio-Cherubini, si veda appresso la nota su Marcinelle, i cui versi
Va l'emigrante ognor con la sua chimera
lascia la vecchia mamma il suo casolare
e spesso la sua vita in una miniera!
richiamano temi che sarebbero divenuti di triste attualità vent'anni dopo.
e' del 1931 una splendida canzone di Libero Bovio, napoletana pur se
scritta in lingua. Parliamo di "Signorinella", che precorre i
temi dell'emigrazione interna, quella che porta i meridionali verso
l'Alta Italia, inequivocabili gli accenni "al mio paese nevica, il
campanile della Chiesa è bianco" mentre il protagonista sogna il
sole e l'amore lasciato nella calda Napoli.
Toscana del 1938, chi non conosce
La porti un bacione a Firenze
che l'è la mia città
che in cuore ho sempre qui
la porti un bacione a Firenze
lavoro sol per rivederla un dì
son figlia d'emigrante
per questo son distante
lavoro perchè un giorno a casa tornerò
la porti un bacione a Firenze
se la rivedo glielo renderò
l'emigrante fiorentino esprime qui però un'intenzione che troverà
seguito nei decenni successivi: non più emigrazione stanziale,
definitiva, si delinea la tipologia cosiddetta dell'emigrante
"temporaneo": andare, lavorare e tornare un giorno in patria col
gruzzoletto. Tuttavia il bacione a Firenze rappresenta un'eccezione
per il suo tempo: il regime fascista mal tollera che si parli
dell'italiano come di un disgraziato costretto ad andare a carcarsi il
pane altrove, magari in un paese straniero, culla di quelle ideologie
sprezzantemente definite demo-pluto-giudaiche, quindi l'emigrazione
negli anni '30 diventa sostanzialmente tutt'altra cosa, diventa la
gioiosa missione civilizzatrice del nuovo italiano, il colonizzatore che
va a prendersi il suo "posto al sole" e contemporaneamente a portare la
civiltà romana a quei popoli selvaggi. Nascono così le "Faccette
nere", "Carovana del Tigrai", "Ti saluto (vado in Abissinia")",
tutti pezzi pervasi di smanie di conquista di terre nuove e redenzione
del selvaggio in nome dell'ideologia nuova. Del resto c'era stato un
precedente illustre col "Tripoli bel suol d'amore" che aveva
accompagnato la conquista della Tripolitania e della Cirenaica del 1912.
Nonostante la fascistizzazione del ministero degli esteri con tutta
la sua rete consolare e l'enorme sforzo profuso nel tentativo di
trasformare gli italiani all'estero in una quinta colonna (come
teorizzato da Roberto Farinacci), Mussolini andò incontro a una disfatta
planetaria. Numeri alla mano, infatti, alla gran quantità di Fasci
fortissimamente voluti dai consolati perfino nel Siam, corrispondeva un
numero di membri così piccolo da essere ridicolo. Le legnate della
guerra fanno sparire presto tutte le ubbie imperialistiche e
quintocolonnare italiane, e di colpo si torna alla nostra condizione di
popolo errante. L'emigrante napoletano pensa con preoccupazione alla sua
terra lontana,timoroso di ritrovare la sua città distrutta e trasformata
dal conflitto mondiale, come traspare dalla celeberrima "Munasterio
'e Santa Chiara", luogo martoriato dal bombardamento alleato e
divenuto un simbolo. Da quelle macerie Napoli e tutta la società
italiana usciranno profondamente cambiate. Particolare, e dovuta
proprio alla sconfitta bellica, la condizione di Trieste, terra di
migranti e per giunta divisa dalla madrepatria italiana. Teddy Reno, al
secolo Ferruccio Ricordi, propone nel 1949 "Trieste mia" che
recita
Trieste mia che nostalgia
mi go lontan de ti
son vagabondo
girà gò il mondo
ma penso sempre a ti....
precorritrice della "Vola Colomba" di 3 anni dopo, inno
dell'italianità triestina, ma questa è un'altra storia.
Perfino la celeberrima "Romagna mia", che sugella la
consacrazione di Secondo Casadei nel 1955 anche al di fuori dei confini
regionali, ha di fondo il nostro tema
"...quando ti penso vorrei tornare
dalla mia bella, al casolare..."
il romagnolo protagonista del canto, è, quindi nostalgicamente lontano dalla sua terra.
E se Claudio Villa nel 1960 piangeva sul "Binario" quelle fredde
parallele della vita che gli portavano via l'amata, Nino d'Angelo gli
farà eco oltre vent'anni dopo in "Maledetto treno" in cui
malediceva, appunto, il treno che gli aveva portato via la bella per
chissà dove. Tragedie assurde come nel '56 la morte nelle miniere
di Marcinelle in Belgio o nell'agosto del 1965 quando un ghiacciaio
delle Alpi Svizzere si rovesciò sui cantieri allestiti per la
costruzione della diga di Mattmark, facendo strage di uomini ispirò
struggenti brani come
"Se vuoi veder l'inferno, amico mio, vieni con me che ti ci porto io,
si chiama Mattmark e Marcinelle".
così apriva la sua "Ballata di Attilio", una canzone cruda e
scarna cantata da Franco Trincale quasi quarant'anni fa. Raccontava la
storia di uno dei tanti italiani che, lasciata la propria terra per un
futuro migliore all'estero, trovava invece la morte. Marcinelle, il cui
toponimo diverrà in Italia simbolo stesso di tragedia, venne cantata
anche da Otello Profazio, ne "Lu trenu de lu soli" del 1963.
Comincia però il cosiddetto boom economico, e l'emigrazione cambia
faccia, assumendo prevalentemente caratteri interni, dal mezzogiorno al
nord Italia, o più semplicemente dalla campagna alla metropoli.
L'urbanesimo ed il difficile distacco dai campi nel "Ragazzo della
via Gluck", pezzo autobiografico di Celentano del '66 che racconta
la sua storia attraverso l'artificio del colloquio con se stesso nei
panni dell'amico rimasto nei campi, a giocare a piedi nudi nei prati,
mentre lui in centro respirerà il cemento. Tema ripreso vent'anni dopo
da Ramazzotti in "Adesso tu", quando lui, ormai cantante di
successo ma "nato ai bordi di periferia" non dimentica tutti gli
amici che sono ancora la.
Il tragico commiato dal mondo di Tenco non sfugge al nostro tema
....La solita strada, bianca come il sale
il grano da crescere, i campi da arare.
Guardare ogni giorno
se piove o c'e' il sole,
per saper se domani
si vive o si muore
e un bel giorno dire basta e andare via.
E' "Ciao amore ciao", una canzone difficile, amara e profonda
come del resto tutto il repertorio del cantautore genovese: in un'Italia
che pur viveva il cosiddetto miracolo economico, c'erano ancora sacche
paurose di povertà e di indigenza, e non sempre il distacco dai campi e
l'avventura verso la città venivano coronati dal successo, anzi spesso
l'impatto con un mondo tanto diverso dal proprio produceva effetti
devastanti. L'esistenzialismo, il disagio, il male di vivere: come
scrisse Enzo Forcella su "il Giorno" del 28 gennaio 1967, certo non ci
si uccide per una canzone, ma forse ci si può uccidere per tutto ciò che
c'è dietro un certo tipo di canzone. Stesso sordo dolore, stessa
cupa tristezza nell'Endrigo degli stessi anni ne "Il treno che viene
dal Sud", tra l'altro pare nata in risposta ad una canzone
"buonista" sul tema dell'emigrazione, "La donna del Sud" di Bruno
Lauzi.
I1 treno che viene dal sud
non porta soltanto Marie
con le labbra di corallo
e gli occhi grandi così.
Porta gente, gente nata fra gli ulivi,
porta gente che va a scordare il sole,
ma è caldo il pane
lassù nel nord.
....
ma in cuore sentono che
questa nuova, questa grande società,
questa nuova, bella società
non si farà,
non si farà.
1971 ed ancora l'Equipe '84 in "Casa mia" di Albertelli e Soffici,
Torno a casa
siamo in tanti sul treno
occhi stanchi
ma nel cuore il sereno
Dopo tanti mesi di lavoro
mi riposerò
dietro quella porta
le mie cose io ritroverò
la mia lingua sentirò
quel che dico capirò....
Struggente il canto dei Ricchi e Poveri e Josè Feliciano in "Che
sarà", nell'abbandonare il celeberrimo "Paese mio che stai sulla
collina....", lasciato alla sua noia, abbandono, niente...per
andare a cercar fortuna lontano. Da rimarcare il fatto che "gli
amici miei son quasi tutti via...." E' chiaro che non si tratta di
una scelta ma di una necessità. L'icona dell'emigrante in Mino
Reitano col suo manifesto "L'uomo e la valigia", il giovane e
speranzoso ragazzo del sud che parte in cerca di gloria verso la
"grande città" e " giorni di nebbia" che ci fanno
inequivocabilmente capire dove si vada, lasciando la bella al paese
natìo mentre il giovane Al Bano nel 1968 aveva raccontato la sua
esperienza ne "La siepe", malinconico addio del ragazzo pugliese
alla mamma che resta nel suo mondo delimitato, appunto, dalla siepe di
casa.
Continua l'Epopea della migrazione interna con "Montagne verdi",
pezzo del 1972 firmato da Bigazzi e dal fratello Gianni per Marcella
Bella, in un clima quasi da feuilletton in cui la ragazza siciliana
narra della sua tristezza nell'abbandonare la ridente terra natia per il
freddo e nebbioso nord Italia. Nel repertorio di Giovanna
Marini,c'è una canzone del '73, "Gli stagionali", che parla
dell'emigrazione italiana in Svizzera, ripresa nel suo penultimo album,
"Buongiorno e buonasera". In una recente intervista Giovanna si è
rammaricata del fatto che la canzone popolare italiana non abbia saputo
contribuire a rendere eroi gli emigrati. Di canzoni sul tema
dell'emigrazione, dice la Marini, ce ne sono, basti pensare a quelle
trovate da Roberto Leydi, alle numerosissime sull'emigrazione in America
o ancora a quelle sulle tragedie che hanno colpito gli emigrati italiani
in Europa, come Mattmark o Marcinelle. Ma questo non è bastato a darci
una coscienza più profonda del fenomeno. Sono convinta che se noi in
Italia abbiamo tanta difficoltà come popolo ad accettare gli immigrati
extracomunitari è perché nessun governo ha reso eroi gli emigrati
italiani che sono partiti per lavorare all'estero. Per noi gli emigranti
per essere degli eroi devono morire o farsi rapire. Ma se partono
semplicemente in cerca di lavoro perché nella loro terra non ne trovano,
sono soltanto dei poveri disgraziati, poco furbi, dei falliti in patria
che pagano oltretutto le tasse. Un buon tema su cui riflettere.
Unico caso di emigrante non italiano nella nostra canzone è il
"Pablo" di De Gregori, emigrante spagnolo in Svizzera, Pablo che
tradisce la sua patria d'origine per la svizzera verde. Qualcuno vide
Neruda dietro il Pablo cantato da Francesco, ma de Gregori stesso ha
smentito tale accostamento dichiarando che proprio di un comune
emigrante intendeva cantare le gesta.
Non è uno mai stata incisa su disco, ma anche Lucio Battisti nel
1980 ha dedicato, assieme a Mogol, un pezzo sul tema. È "Il paradiso
non è qui"; considerata da Mogol un brano validissimo tanto da
indurgli a dire "…l'ho sempre considerato uno dei brani più belli
scritti in quel periodo: non ho mai capito perché Lucio non ha voluto
inciderlo". Il testo riporta frammenti della vita di un italiano
emigrato in Inghilterra per lavoro, una lettera scritta all'amico
restato in Patria che sottolinea come il Paese ospitante ha saputo
offrire un lavoro, un diverso modo di campare, anche se le donne sono
diverse e si comportano in modo non conosciuto, il vino non è molto
buono e costa caro, sicuramente vivere qui è duro. Un misto di orgoglio
per la propria capacità di adattamento e di rimpianto per le cose
lasciate. L'emigrazione è agli sgoccioli. E' del 1981 Pasquale
Ametrano, l'operaio materano emigrato a Monaco di Baviera magistralmente
dipinto da Carlo Verdone in "Bianco Rosso e Verdone". Si può terminare
con questa macchietta mica tanto lontana dalla realtà, diverso ma
integrato (Pasquale ha una moglie tedesca e parla tedesco, mentre di
italiano conosce solo il suo dialetto materano) il fenomeno
dell'emigrazione dall'Italia, quanto meno l'emigrazione da "poveracci".
L'ultimo accenno all'amore che si allontana che si allontana col treno
"cattivo" ci sovviene da una adolescente Laura Pausini del '93 che ne
"La Solitudine" ha ora il volto di Marco, il fidanzatino che è
andato via al seguito del padre che ha cambiato lavoro, anche se da più
l'idea del figlio di funzionario di banca trasferito pittosto che del
povero emigrante. Via via che la condizione del nostro paese si
andava rovesciando, diventando da terra di emigranti a meta d'immigrati,
scompaiono questi temi dai testi delle canzoni, e, inevitabilemente, tra
la fine degli anni '80 ed i '90 cominciano a comparire accenni
sull'integrazione degli "altri" in Italia; Pino Daniele nel suo "'O
Scarrafone", canta degli immigrati nordafricani ammonendoli
"...e se hai la pelle nera
amico guardati la schiena.."
e rifiorisce in un gruppo rap partenopeo la "Tammurriata
nera", ribattezzata "...del lavoro nero", che recita
"se, 'a tolleranza se, se 'a comprensione se.....";
ispirato, ovviamente, al "pummarò" o al "vu cumprà" che è possibile
incontrare oggi per le strade di Napoli. Rimarchevole "Nero"
di Francesco De Gregori che nel 1987, nell'album "Terra di nessuno"
cantava:
La vita non è una scampagnata / E il Nero lo sa /
Preso a calci dalla polizia / Incatenato a un treno da un foglio di via /
Oppure usato per un falò / Il Nero, te lo ricordi il Nero quando arrivò? /
Che si sbarbava con un pezzo di specchio / E un orecchio si tagliò…
E aveva dentro una malattia / O chissà quale tipo di ipocondria
Con la penna e le melodie di Samuele Bersani, l'immigrato diventa prima
una "Barcarola albanese", dall'album "Freak" del 1995. La canzone
racconta il viaggio di speranza che, a partire dai primi anni '90,
migliaia di albanesi hanno affrontato sulle carrette del mare "…sopra
questa noce". Uno dei tanti che "… per arrivare a Brindisi
pagherò / saremo liberi per sempre / potremo visitare Rimini".
Poi si trasforma in "Crazy Boy" (1997, album "Samuele Bersani"),
l'egiziano lavavetri che un giorno si imbatte in un museo sull'antico
Egitto e conosce così il suo passato:
"nel palazzo del museo / sono figlio di un egiziano /
muratore e un po' faraone / che si chiama Scarabeo".
Poi diventa Ahmed l'ambulante nella canzone dei Modena City Ramblers
"Riportando tutto a casa". Ahmed che per quaranta notti ha
"venduto orologi alle stelle", al gelo, sotto un portico deserto.
Ahmed che la quarantunesima notte venne aggredito "così per
divertirsi o forse perché risposi male / mi spaccarono la testa con
un bastone… Non sono morto al freddo delle vostre città / ma su
una grande pila d'ebano / e la mia gente ha cantato e ballato per
quaranta notti". Poco conosciuta ma significativa la
"Canzone per Ion", scritta da Renato Franchi, musicista, autore
di grande sendibilità poetica, che ha composto il brano che dà il titolo
al Cd sull'onda dell'emozione di un tremendo fatto di cronaca. Ion
Cazacu, un ingegnere rumeno di 40 anni, emigrato in Italia dove lavorava
come muratore, la sera del 14 marzo 2000 venne bruciato dal suo datore
di lavoro, un imprenditore edile di Gallarate, durante una discussione
nella quale Ion rivendicava i suoi diritti di lavoratore. Sempre
nutrito dalla creatività dei Modena City Ramblers, nella canzone
Ebano (Premio Amnesty Italia 2005, dall'album "!Viva la vida,
muera la muerte!" - 2004) l'immigrato ora è una donna. la Perla nera che
aveva speso tutti i risparmi per il viaggio in Italia e che finisce a
Palermo a raccogliere arance e limoni in cambio di due soldi e una
camera nascosta.
"Poi un giorno sono scappata verso Bologna / con poca speranza
/ … /
Ora porto stivali coi tacchi e la pelliccia leopardata /
E tutti sanno che la Perla Nera rende felici con poco...
Perciò se passate a Bologna, ricordate qual è la mia storia /
Lungo i viali verso la sera, ai miei sogni non chiedo più nulla".
Ed il sensibilissimo Ivano Fossati, al quale è andato il Premio Amnesty
Italia 2004 per la canzone "Pane e coraggio", tratta dall'album
"Lampo viaggiatore" del 2003. Pane e coraggio per tutte quelle persone
che affrontano il mare in vecchie carrette troppo piene. Pane e coraggio
per mandare giù la delusione quando il sogno di una vita migliore in
Italia finisce sul filo della frontiera, in un centro di accoglienza per
immigrati e nell'attesa di essere rispediti in patria.
Proprio sul filo della frontiera
il commissario ci fa fermare
su quella barca troppo piena
non ci potrà più rimandare
…
Nina ci vogliono scarpe buone
pane e fortuna e così sia
ma soprattutto ci vuole coraggio
a trascinare le nostre suole
da una terra che ci odia
ad un'altra che non ci vuole.
"Chi fugge dal proprio paese non è un problema. Chi fugge dal proprio
paese ha un problema." Sono queste le parole che accompagnano il cd
singolo "Mio fratello che guardi il mondo" dedicato da Ivano
Fossati ad Amnesty International per la Giornata mondiale dei diritti
umani.
Sono nato e ho lavorato in ogni paese /
e ho difeso con fatica la mia dignità /
Sono nato e sono morto in ogni paese /
e ho camminato in ogni strada del mondo che vedi.
Sono solo alcuni dei versi della canzone che invita a vedere gli
immigrati come parte di questo paese e del mondo intero". al problema
della emigrazione e del rapporto con le culture diverse per il quale ha
chiesto che venisse aggiunta in sovraimpressione, durante la sua
esibizione sanremese del 2000, una frase tratta dalla "Lettera agli
Ebrei" di San Paolo: "Non dimenticate di essere ospitali con gli
stranieri perché alcuni hanno ospitato degli angeli senza saperlo".
Fossati ha spiegato di essersi imbattuto in questa frase ed esservi
stato indotto a pensare a quella parte innocente della gente che si
muove lasciando il proprio paese perché ha voglia di vivere lontano
dalla povertà e dalla guerra. Ha quindi deciso quindi di inserire quel
verso perché sembrava che rafforzasse il testo della canzone sul tema
della tolleranza. Lo spirito della citazione è naturalmente da laico,
nonostante la totale coincidenza del pensiero con quello del sacro
testo, ha agigunto Fossati. Del 2005 è il brano di Enrico Boccadoro
"Dov'è la terra capitano?" a riprendere il tema dell'immigrazione
a Sanremo, peraltro un classico del Festival degli anni d'oro, ma col
senso migratorio rovesciato. Il giovane cantautore romano, dietro la
metafora dell'America che, da lontano miraggio di continente dorato
assume ora le sembianze delle nostre coste, descrive la parabola del
rovesciamento del concetto d'emigrazione, che in realtà è una presa d'
atto della pochezza dell'Italia di oggi. Si è sempre meridionali di
qualcuno. Quando eravamo noi gli extracomunitari.
Maurizio Targa
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