di Mario Bonatti 1951-57: Un evento monomediatico Le prime edizioni del Festival nascono soprattutto come evento radiofonico, sebbene si unisca anche la TV di Stato dal 1955. Di radiofonico c'è anche il suono proposto, che in qualche modo riassume i fasti dell'EIAR, suddividendo il ventaglio di proposte in due filoni principali: quello della melodia arieggiante, e quello dei ritmi sincopati, supportati da orchestre di indubbio spessore. Benché non manchino alcuni felici intuzioni nell'uno e nell'altro settore, la tendenza comune è di un certo livellamento di tradizione e innovazione. Le stesse proposte più disimpegnate infatti peccano di banalità e di ammiccamenti, laddove c'era stata una stagione più felice nei decenni passati. In altre parole: latita l'umorismo più graffiante, quello per intenderci anti-regime, come se non si avvertisse più l'esigenza di ridersi addosso o di lanciare messaggi nella bottiglia contro un certo malessere. Ecco dunque il via libera alle storie d'amore più melodrammatiche, ai più vieti feuilletton, e dosi di melassa a non finire. Basta scorrere i nomi delle canzoni vincitrici, dove a salvarsi è paradossalmente Grazie dei fiori, canzone dignitosa e avanti con gli anni, ma nessuno se ne è accorto, subito seguita da canzoni indegne di... note. E se Papaveri e papere riesce a suscitare scalpore in quanto apportatrice sospetta di una doppia chiave di lettura (ma sarà stato così?) e solo per questo degna di un qualche encomio, ecco che la terribile Tutte le mamme (la peggiore canzone del secolo), la lugubre Buongiorno tristezza (benché utile per consacrare il mito del già famoso Reuccio), la inconsistente Aprite le fineste (in una edizione che era una sorta di Nuove Proposte antelitteram) e la innocua Corde della mia chitarra non fanno certo rimpiangere il Sanremo di una volta. Qualche attenuante per Viale d'autunno, premiata nella terza edizione, dove almeno spicca una certa apertura verso timbri più raffinati. Ma e' un Sanremo che nasce già vecchio.
1958-1966: Volare e poi… planare La bomba Modugno, anzi meglio il successo mondiale di Nel blu dipinto di blu è tale da permettere che il Festival non possa far finta di restare chiuso su sè stesso: ecco che lo swing della canzone italiana più famosa nel globo stimola una piccola rivoluzione musicale che saprà anche precorrere le evoluzioni che si preparano nel decennio del beat dei ritmi ballabili. In queste successive otto edizioni si fa strada una costante ricerca di nuove proposte musicali e nuovi percorsi anche letterari. Ma è una corsa a ostacoli, poiché la melodia fa quadrato ed erge una barricata intorno al consenso popolare di quello che è ancora lo zoccolo duro del Festival, cioè un pubblico non proprio giovanissimo. Ecco perché Modugno dopo aver dato la scossa necessaria non solo al Festival ma anche alla musica nostrana, ritiene giusto (o non glielo permetteranno) non dare il benservito alla rima baciata e ai lirismi di ogni natura, al punto da convincersi che il Made In Italy esportabile è soltanto una copia aggiornata del solito film da 50 anni a questa parte. Se la ribattezzata "Volare" è dunque un volto giovane, altri successi sono come delle tardone col lifting, a cominciare dalla smargiassa Piove, alla pesantissima Al di là, scelta col televoto, quindi destinata a vincere anche senza meritarlo. La stessa Romantica, malgrado una interpretazione maiuscola di Dallara e di Rascel, non fa che ammiccare alla moda degli urlatori ma facendola scendere a compromessi con l'imperante e retrivo suono all'italiana. Festival di riparazioni, se è vero che Renis, bistrattato con la popolare (ma sopravvalutata) Quando quando quando ottiene una vittoria tardiva con la nefanda Uno per tutte (la classe dei gigolò va in paradiso!), e se il rampante Bobby Solo, bloccato dal mal di gola, si riprende il mal tolto con Se piangi se ridi che intera non vale un terzo di Una lacrima sul viso dell'anno precedente. Un'altra rivelazione si chiama Gigliola Cinquetti, trait-d'union con il neonato beat, ma nonostante la disinvoltura della giovane voce veronese, si continua a parlare con toni fin troppo "maturi" per credere che questi siano davvero i nuovi giovani, e infatti cadrà nelle grinfie dei matusa vincendo due anni dopo con Dio come ti amo che rispetto a Non ho l'età di età ne ha fin troppa. La lezione musicale dei papà e dei nonni continua a predominare: qualcosa cova, forse un pizzico di umorismo in più, ma non tanto per cambiare sapore alla pietanza. Arrivano anche gli abbinamenti con cantanti stranieri, cassa di risonanza ma per un marchio di fabbrica sempre più sbiadito, con l'aggravante di imbarazzanti pronunce in italiano, dalle cui insidie si salva il solo Paul Anka e pochi altri (Timi Yuro in primis). Un'occasione mancata… anche se Addio addio resta un'affermazione di un certo valore (benché favorita dall'abbinamento di ferro Villa-Modugno), ma andava bene come dignitoso canto del cigno. Invece la quarta vittoria del Mimmo nazionale del 1966 è il picco più basso che rischia di vanificare persino quella di otto anni prima. I suoni nuovi della Gran Bretagna sono alle porte, o meglio al piano di sotto: basterà o anche i capelloni sono in grado di impantofolarsi? La seconda, purtroppo…
1967-1971: tanto beat per nulla Le successive sei edizioni attraversano un periodo delicato della storia del nostro paese, e denunciano un certo clima di messa in discussione di ogni limite. Musicalmente, la rivoluzione dei Beatles e il suo repentino scioglimento rendono viva più che mai la voglia di rinnovare. Sanremo tuttavia riuscirà in parte a attenuare le spinte innovatrici delle nuove leve, premiando naturalmente le proposte non sempre più fresche e propositive. Aumentano sì le canzoni di valore, si diversificano i generi, e nonostante il conservatorismo delle graduatorie finali, si può dire di aver fatto un passo avanti. La tragedia di Luigi Tenco avrà una portata tale da riflettersi più sull'intero panorama musicale che non sullo scorcio festivaliero, al quale il cantautore genovese presunto omicida non apparteneva e per questo, oltre che per la capacità aberrante dei massmedia di cacciare scomodi fantasmi, sarà dimenticata e taciuta praticamente all'istante, premiando nel 1967 una Non pensare a me made in Claudio Villa, allungata col Gerovital (e la Iva Zanicchi a fare da infermiera ricevendo come compenso una vittoria più su misura due anni dopo!). La vittoria di Endrigo e Carlos con Canzone per te almeno, anche se molto somigliante a un'operazione di risarcimento verso la classe cantautorale (che tuttavia non fece vittimismi di sorta per il vuoto lasciato da Luigi), era in grado di camminare anche con le proprie gambe, ma sarà un fuoco di paglia, vista poi la Zingara del 1969 (raro esempio di ibrido tra melodia e bluejeans) e la coppia sbarazzaina quanto male assortita tra Nicola Di Bari e Nada, due voci straordinarie alle prese con un pezzo senza infamia e senza lode. Prima de Il cuore è uno zingaro, era arrivato il ciclone Celentano, un'invasione a tratti benefica, a tratti smorzata dallo stesso Molleggiato che, messo a tacere con la fiction in canzone de Il ragazzo della Via Gluck, (pezzo debole ma originale) e dopo avere rubato senza mezzi termini la Canzone a Don Backy, da autentico capo Clan, con Chi con lavora non fa l'amore vince ma non convince, anzi fa scadere la protesta in un capzioso ricorso al pecoreccio e al qualunquismo che naufraga nel revisionismo della vecchia guardia, portandosi dietro, con fare nepotista, moglie parenti e amici (imbarazzante e inverosimile la versione di Claudia Mori, basta comparare i due testi). La regia occulta del festival coglie la palla al balzo e illude di essere di larghe vedute. Non sempre le proposte di un certo livello raggiungono la finale, a dimostrazione di una tendenza che si farà strada fino ai giorni nostri, che spesso la qualità è direttamente proporzionale al cattivo gusto delle giurie.
1972-1980: senza luce L'evoluzione della musica italiana passa per il Festival di Sanremo, eccezion fatta per gli anni 70. Se nel 1972, prima edizione con interprete singolo dopo quindici anni, alcuni slanci mutuati dalle edizioni precedenti hanno permesso che qualche barlume di luce si scorgesse (salvo dare in mancanza di alternative un eccessivo bis a Nicola Di Bari con I giorni dell'arcobaleno), ecco che il carnet si impoverisce dall'anno seguente fino a un tracollo verticale che allontana persino la televisione dal prime time, relegandola in un cantuccio. Un grande amore e niente più e Ciao cara come stai sono due affermazioni dettate più dal desiderio dei due vincitori di suscitare un ritorno di fiamma in loro stessi (Di Capri farà un altro gol a porta vuota con Non lo faccio più), ma al Festival servono a poco o a nulla. Si tocca il fondo con Ragazza del Sud in una edizione di sole proposte sconosciute, ignorando che nel frattempo l'intero panorama extrafestivaliero proponeva e sapeva promuovere nuovi voce e nuove idee in maniera autonoma e libera dai retrivi schemi della gara canora. Le prime classificate hanno il vestitino adatto, ma non è alta moda: si parla di amore abbinandolo alle prime pruderie della rivoluzione sessuale, ma appunto è solo un'espediente per farsi accettare dai più giovani. Non lo faccio più è un tonfo clamoroso nonché un passo indietro; Bella da morire è a dir poco ridicola e mette in risalto la parte più deleteria dell'ondata di complessi pop che ha colorato le nostre discoteche; E dirsi ciao se da un lato premia la band più innovativa dell'ultimo periodo, i Matia Bazar, lo fa col pezzo più noioso della loro discografia, in una sorta di paradosso che arriverà a premiare questo complesso quando non lo merita e a bocciarlo quando invece meriterà. Ma si farà anche peggio con un inutile blues da pianobar, Amare del futuro backvocalist Mino Vergnaghi in una edizione che non vedrà nessuna canzone in classifica nella Top 20, culminando nel 1980 di Toto Cutugno, rockettaro pentito che, da Solo noi in poi, saprà tingere di grigio (intesi come colore di capelli) anche i palcoscenici finalmente ringiovaniti del decennio successivo. Ma dietro i vincitori scarseggiano anche le alternative: i parolieri e i direttori di orchestra di un certo valore si sono presi una bella vacanza, i pochi lampi di luce (la prima Anna Oxa, Rino Gaetano, Vecchioni, Dalla, Rettore) non rischiarano le tenebre. Fuori dal teatro Ariston la musica si evolve, i cantautori raccontano la nostra storia senza peli sulla lingua. E tu Sanremo cosa fai? Ci accontenteremmo di qualche melodia nuova, qualche arrangiamento più brillante, qualche colpo di coda. Ci sarà? ma questo è la canzone che vince nel 1984! MARIO BONATTI
|