1996: Un raggio di Elio
di Mario Bonatti


Tra arsenico e vecchi merletti, le solite quote "sindacali" di zollette di zucchero, va in scena un'edizione non priva di qualche gradita presenza, sempre telecomandata dalle giurie che non fanno altro che dettare le regole del "Sanremo-correct" e anche di segnalare cosa è nuovo e cosa è vecchio (o meglio chi). La vittoria di Ron non era programmata più di tanto come un tempo, ma anni dopo scoppierà un mezzo scandalo che vedrà coinvolto il patron Baudo che sarà accusato di aver accomodato la vittoria e forse anche il podio: secondo questa voce sarebbe stata di nuovo Giorgia se non addirittura Elio e le Storie Tese a raccogliere più voti.

Non entriamo nel merito della questione: certo Sanremo attira sospetti e illazioni come un barattolo di miele gli orsi, come neanche il campionato di calcio a proposito degli arbitraggi. Va dato atto a Baudo di una scelta tecnica che ha motivato la selezione dei Big attraverso un principio cardine: partecipano solo i cantanti di professione. Decisione che certo non garantisce il 100% di buona musica, ma almeno ci esula da certe presenze amene: per questa edizione avevano bussato alla porta Alba Parietti e Marco Pantani, che hanno quindi dovuto soddisfare la loro voglia di cantare alle loro feste con amici. Mentre viene confermato l'ingresso di quattro campioni (parola forte per costoro…) attraverso le Nuove Proposte dell'anno passato, ecco una innovazione importante che riguarda proprio i giovani: nessuna scrematura, tutti in finale al pari dei Big.

Al tirar delle somme le belle canzoni registrano un incremento, ma anche una clamorosa esclusione. A Ornella Vanoni, che minimizzerà l'accaduto, fanno, come si… suole dire, le scarpe. Durante una Domenica In un'incauta corista (sicaria?) esegue la melodia della sua "Belloamore": regolamento alla mano, la canzone è esclusa dalla competizione, anche se cantata con altre parole. La platea dell'Ariston viene privata di una canzone bellissima, candidata alla vittoria, capace di mettere d'accordo tutti. Non a caso sull'etichetta aggiuntiva del suo album "Sheherazade", ristampato per l'occasione, si leggerà testualmente: "nuova ristampa, contiene Belloamore che avrebbe potuto vincere Sanremo 96". La Vanoni, come lei stessa affermerà, ha artisticamente le spalle così forti da non fare drammi per un Sanremo in più o in meno. Baudo dichiarerà: "a questo punto i Big possono essere anche diciannove". Sarà invece chiamato Enrico Ruggeri, che aumenterà le file di ex-vincitori presenti al quarantaseiesimo appuntamento rivierasco. Lo stesso Ruggeri minaccerà il ritiro, in quanto nella serata inaugurale, un problema di audio escluderà dall'ascolto le chitarre di Luigi Schiavone (che è mezza squadra per Enrico), e Baudo si scuserà senza fargli ripetere l'esecuzione (eventualità prevista in questi casi), adducendo il fatto che la serata era solo di presentazione e non di votazione. Ma come direbbe un giornalista sportivo, passiamo al calcio giocato.


CAMPIONI
Vince Ron, vittoria giunta dopo ben ventisei anni dal suo esordio festivaliero (nel 1970 in coppia con Nada e il suo nome di battesimo Rosalino cantava "Pa' diglielo a ma'"). Il suo pezzo rientra nel suo filone romantico meno sfruttato rispetto alla sua tendenza al country e alle storie di vita quotidiana. Comunque lo stile dei suoi anni migliori, leggermente appannato nei '90, torna prepotente in questa arpeggiata serenata rivolta all'amore senza fine: Vorrei incontrarti fra cent'anni è in fondo una dolce iperbole condita di utopia che sottintende un attaccamento alla via terrena attraverso il filo rosso dei sentimenti. Vittoria da ascrivere anche a Tosca, alias Tiziana Donati, che accompagna Ron in veste di voce aggiunta, quindi ufficiosamente e non come duo, facendo la sua comparsa a metà canzone, con il suo consueto stile sobrio e elegante, per un personaggio forse poco apprezzato rispetto ai suoi valori. Vittoria dunque non tanto annunciata, ma alla fine neanche tanto spiazzante.

La sorpresa dell'anno si chiama Elio e le Storie Tese, che giungono secondi vincendo anche il Premio della Critica: usando il gergo del dialetto milanese, che traduce le storie tese in tossicodipendenza, (ma è anche un retaggio degli Skiantos!) ecco un sestetto di musicisti navigati e turnisti d'eccezione, facenti capo a tale Sergio Conforti, autentica colonna delle sale di incisioni italiane, ribattezzatosi Rocco Tanica (pseudonimo mutuato da un attore porno): dopo una lunga gavetta underground e alcuni album dai contenuti audaci e verbalmente provocatori fino al nichilismo e alla icononoclastia, il gruppo approda al Festival e sceglie una marcetta nazionalpopolare che tuttavia è tutt'altro che compromissoria, ma riflette fedelissimamente l'acume artistico a tutto tondo del gruppo che firma collettivamente i pezzi, che una volta tanto non ha parole scurrili e possono sfoggiare al massimo sia una certa parentela alla più innovative istanze letterarie del Novecento, sia una sottile satira di costume, non solo politica. La terra dei cachi (nome semiserio dato al nostro Paese "Italia sì Italia no") racchiude in parte la cifra artistica del gruppo, in grado di mischiare la musica di qualità alla commerciale, evidenziando l'una per sottrazione nel tempo stesso in cui prende di mira l'altra. Dopo un'introduzione rock che riecheggia l'inno della neonata "Forza" politica di Berlusconi, a cui segue una marcetta molto orecchiabile, scorrono immagini dell'immaginario collettivo italiano, dove è possibile ritovare l'attualità, episodi di cronaca del recente passato, accompagnati da un linguaggio deformato e una serie di associazioni mentali per luoghi comuni e concetti appena accennati che permettono il passaggio di palo in frasca e la doppia chiave di lettura, seria e faceta. Non contenti, la performance del gruppo è tale da non passare inosservata: uno spettacolo nello spettacolo, con una cura nell'abbigliamento, culminato nel travestimento della serata finale, in perfetto abbigliamento Rockets (tute futuribili e i volti dipinti d'argento). Acuti finali sempre cangianti in trovate a soggetto di Stefano Bellisari in arte Elio (spesso preso di mira Baudo ma anche Giorgia all'atto della premiazione, fino al finale che fa il verso a "Perché Sanremo è Sanremo", cambiando Sanremo col titolo) e la trovata di far suonare, almeno per una nota, tutti ma proprio tutti gli strumenti a disposizione dell'orchestra, compreso il maestro Peppe Vessicchio che dà il via a voce. Performance immortalata sul loro album "Eat the phikis", mentre la versione studio avrà spazio solo nella compilation (il singolo sarà una versione liscio con l'Orchestra Casadei). Finanche nella serata di venerdì, dove i Big cantavano il loro motivo per un minuto, hanno trovato il modo di raddoppiare la velocità del pezzo cantandolo così quasi per intero ("cinquantacinque" secondi, sottolineerà Elio…) riproponendo il gioco dei vecchi giradischi con cui si poteva sentire un 33 alla velocità di un 45 giri. Tanta carne al fuoco che tutti mangiano a sazietà…

Ma Sanremo in fondo è sempre Sanremo, e la melodia la fa da padrona. Giorgia, da campionessa in carica, bissa il podio ed è medaglia di bronzo con un altro pezzo jazzato con sentimento: Strano il mio destino appare leggermente inferiore al precedente, forse bastava ridurre la dose di zucchero per assaporare anche gli ingredienti. Ma non c'è pace per i diabetici: l'amore regna sovrano.

Spagna passa dal terzo al quarto posto, laddove offre una prova almeno dignitosa: ispirata a suoni esotici e accompagnata da un sitar indiano E io penso a te mette in risalto le sue doti come mai aveva ottenuto finora, quasi lasciando in secondo piano la consueta banalità di cui sono costellati i suoi testi.

Ma in fondo la piazza offre davvero poco, se è vero che i Neri Per Caso, quasi per voler stupire ma di fatto deludendo in pieno, si presentano non più cantando a cappella, ma facendosi accompagnare dall'orchestra e limitando al minimo le loro acrobazie vocali in questo insipido blues intitolato Mai più sola, resuscitato da un passato artistico non collocabile a causa della sua atificiosità.

Un mezzo successo lo compie invece il redivivo Al Bano, che nella prima serata riceve un'accoglienza tiepida da parte delle giurie, ma alla fine risale la china fino al settimo posto con un accorato lamento (in senso buono) molto sincero e carico di pathos: dopo le ruffianate con sua moglie Romina, fa piacere riascoltarlo nello splendore delle sue estensioni vocali con questa È la mia vita, pezzo che sa di autobiografico e pare anticipare la sua crisi coniugale. Anche perché molti dei suoi più giovani colleghi mostrano una scarsa tenuta alla distanza.

A cominciare da Aleandro Baldi, che esaurito il suo filone si affida a Bigazzi e si fa accompagnare da un capellone svociato, tale Marco Guerzoni, in questa patetica Soli al bar, che rimesta nel modo peggiore i luoghi comuni più vieti sul disagio giovanile e su una ipotetica generazione di nullafacenti, che studiavano ma hanno smesso non si sa per quale motivo, forse per entrare in questa canzone costellata di "piedi e marciapiedi". Di cattivo gusto le parole messe nelle ugole di Baldi che si riferiscono alla sua condizione di nonvedente ("la domenica io rubo in questo bar / l'impronta calda dei sederi / e i baci stropicciati sui bicchieri umidi").

In medias stat virtus dunque. Seguendo la graduatoria finale segnaliamo, nelle quattro posizioni di mezzo, alcuni habitués, accomunati dalla cittadinanza romana. Un ritorno in sordina per Paola Turci con una allegorica Volo così senza infamia e senza lode, ma comunque con sicure garanzie di una proposta d'autore.

E un ritorno anche per Amedeo Minghi, ormai indirizzato verso una forma di neoromanticismo gozzaniano: Cantare è d'amore introduce a un progetto di poesia musicata che sarà poi l'omonimo album, non delude le attese dei suoi ammiratori e offre pertanto una efficace resa emotiva, da distribuire equamente dalla lezione panelliana appresa da Minghi e dalla sua abilità nel destreggiarsi col pentagramma.

Michele Zarrillo, prendendo le distanze dal vacuo stile Venditti, dimostra che la stoffa l'ha sempre avuta ed è solo il caso di sfoggiarla. L'elefante e la farfalla resta il suo piccolo capolavoro, che lo indirezzerà verso una sorte di consacrazione artistica e una maggiore attenzione alle sue scelte artistiche. Una canzone dalla melodia immediata e una felice serie di allegorie sull'amore non corrisposto che porta a un orgoglioso senso di solitudine e lucide riflessioni sulla bellezza che è dentro: Zarrillo dà voce ai tanti elefanti che non sanno fare a meno di innamorarsi delle farfalle, diverse solo dal fatto di mostrare più visibilmente la leggerezza dei propri pensieri che non sempre corrispondono all'aspetto fisico.

Analogamente Luca Barbarossa prosegue nel suo discorso country e mostra di voler andare verso questa direzione con questa riepilogativa Il ragazzo con la chitarra, forse un po' prevedibile nel descrivere il classico fricchettone giramondo che strimpella, osserva e all'occorrenza scrive ballate: musicalmente fortunato l'impatto con questo groove che almeno palesa uno stile che in Italia è stato lasciato troppo all'oblio. Luca abbinerà questa sua partecipazione, con l'incontro ravvicinato con Bruce Springsteen, ospitato per promuovere il suo capolavoro "The ghost of Tom Joad", e a sua volte ospitante il nostro nel suo camerino per due chiacchiere intorno al rock americano, Woody Guthrie e compagnia cantante.

Dicevamo dunque di Enrico Ruggeri: chiamato in extremis, coglie l'occasione di promuovere il suo nuovo lavoro e sceglie senza remore un pezzo per nulla facile quale L'amore è un attimo come sempre intriso di quella sua sottile vena filosofica mediato con altrettanta saggezza dal suo pop crocevia di stili, esperienze e maestri. Con lui appare per la prima volta la sua futura compagna Andrea Mirò, in funzione di backvocalist nel contrappunto nella versione da studio è sostenuta dallo stesso Enrico. Posizione di classifica non ragguardevole, ma prevedibile.

Detto di un pleonastico Paolo Vallesi che scivola come una saponetta con questa corriva e debole Non andare via, e un saluto e ringraziamento plenario al termine della sua esibizione del sabato, come a voler rivolgere l'estremo saluto a una ribalta che sembrava avergli già dato quanto possibile e forse anche troppo, ecco le due posizioni di coda, bocciate ma senza meritarlo.

Riccardo Fogli, come risposta al bocellismo dilagante, usa la sua umile voce raccontando con un Romanzo musicato le speranze e le passioni di due innamorati senza tempo, meritandosi i complimenti del melomane Baudo che ne sottolineerà l'elegante partitura.

Fanalino di coda per Umberto Bindi, finalmente ammesso dopo un pluriennale ostracismo non solo sanremese. Per lui si scomoda Renato Zero che gli offre una Letti in punta di piedi, lucida e… renatozerica dissertazione sulle personali scelte di vita in merito di affetti. A far compagnia al decano dei cantautori, in qualità di coristi ci sono quel che resta dei New Trolls, che si offrono come spalla forse anche atipica e eccessiva che puzza di bruciato (esce infatti una raccolta di successi ahi ahi…). Bindi interpreta da par suo, con aria mesta ma altrettanta classe e misurato istrionismo. Le giurie, che a quanto pare non hanno mai sofferto Renatone, saranno impietose.

Presenza atipica è del cantante cabarettista (più la seconda) Federico Salvatore, lanciato dai riflettori del Costanzo Show: la sua maschera bifronte sui due modi di intendere il napoletano medio (quello aristocratico e quello popolano che pronuncia sempre "azz!"), non ha spazio sul palcoscenico sanremese, e per l'occasione si trova costretto a vestire un vestito drammatico, facendo il verso alla tradizione attorica dei fratelli Barra. Sulla porta è l'ennesima prova di Bigazzi, non tanto infelice ma neanche tanto distante dal suo stile: nella carellata dei luoghi comuni del toscano, mancava l'omosessualità. Ecco dunque la storia di un guaglioncello cresciuto che va a vivere con un uomo suo "primo vero amore", colto nell'atto di salutare sua madre (ovviamente separata) che lo rinnega con tutto il cuore. Pezzo un po' "polpettonesco", che riesce a destare scalpore ai Dopofestival, al punto che l'interprete napoletano dovrà evitare di proferire la parola "omosessuale" inserita nella canzone per non choccare i benpensanti, come se ciò servisse a smorzare la portata trasgressiva del tutto specie dopo tanti fiumi di parole (ma quelli torneranno, eccome se torneranno, vero Jalisse?). L'interpretazione della serata finale sarà decisamente sopra le righe, pregudicando probabilmente la posizione data dalle giurie (dal quarto della prima serata su dieci pezzi al tredicesimo finale su venti).

Chiudono la schiera dei Big, i quattro "Big" emancipati. Il solo Massimo Di Cataldo otterrà un riscontro soddisfacente, confermando i successi dell'anno passato tra il pubblico delle adolescenti. La Se adesso te ne vai ha l'aspetto di un completo elegante indossato al liceo in occasione di un'importante interrogazione, che gli frutta un buon sesto posto, in virtù delle giuste mosse accordali e orchestrali che per un attimo lo fanno sembrare anche un valido interprete ma che non sanno nascondere la banalità che circonda la pochezza dei suoi contenuti.

Disastro totale per le altre tre finaliste aggiunte: inconsistente Rossella Marcone con Una vita migliore (brutta copia di Spagna), irritante Raffaella Cavalli e il fantasma della Pausini con Sarò, delude Finizio con Solo lei, con in più la scelta di togliersi il nome Gigi perché non se lo ricordavano mai. Mah… Idea analoga è stata partorita da Fedele Boccassini, che però si disfa del cognome e resta purtroppo… Fedele al suo stile scimmiottesco alla Vascorossi e propone una obsoleta Non scherzare dai, ma a quanto pare sembrava fare sul serio.

Eliminato dunque insieme alla onesta Mara con Non è amore e ai ridicoli Dhamm con Ama con la quale cullavano la speranza di colpire al cuore delle teenager ma che invece si risolve in un delirio di voci roche e sdolcinate chitarre. Considerando che le Nuove Proposte vanno tutte in finale, sono solo tre le canzoni 'segate' a questo Festival.

Ma in questo caso hanno avuto ragione i due assenti tra i Giovani del 95: Gianluca Grignani e Daniele Silvestri prendono tempo, e il tempo gli darà ragione, assurgendoli a Big a prescindere dai capricci delle giurie e dai calcoli dei manager.


NUOVE PROPOSTE
Per la prima volta dunque i giovani non provano il piacere dolceamaro della tremarella, in quanto cantano tutti almeno due volte. Un passo in avanti, e mezzo indietro considerando alcune delle canzoni in gara, compresa naturalmente quella incoronata col primo posto. Cecilia Cipressi dall'Agro Pontino, che ha Syria come secondo nome, è la nuova reginetta che continua la sequela di pausinisimo dal quale Sanremo sembrerà non volersi assolutamente liberare, forse perché ahinoi comporta lauti guadagni e soprattutto l'esportazione della merce nei mercati d'oltreoceano. La teenager acquaesapone vince dunque con Non ci sto (frase più volte ripetuta dal Presidente in carica Scalfaro), ennesima trovata zuccherosa di Claudio Mattone, stavolta anche più spinta verso un misto di romanzi rosa e dizionari del piccolo compositore. In più ci si mette anche l'ufficio marketing a mettere sulle labbra di Syria la poco credibile favola del suo incontro con Mattone, che l'avrebbe casualmente ascoltata cantare al karaoke in un locale dell'isola di Ponza e l'avrebbe avvicinata, proprio lei che è figlia di un produttore!

E poiché Sanremo è Sanremo (come dirà la sigla di quest'anno) ecco che non si perde né pelo né tantomeno il vizio. E per la seconda piazza si conferma lo stesso trend: un'altra voce molto intonata, ancora più prodigiosa in quanto appartenente a una ragazzina di appena dodici primavere, trova un anno di gloria. Adriana Ruocco, napoletana, dimostra almeno di essere imparentata nel DNA alla melodia partenopea e in più a una certa matrice blues, per quanto Sarò bellissima sia una canzone troppo scontata sul tema del "bello-perché-piace" e banali implicazioni proprio sulla sua età definita non ancora della massima espressione estetica, della serie: fammi crescere e ripassa.

Ed ecco che qualcosa di nuovo si deve accontentare del terzo posto: Marina Rei è una delle due rivelazioni dell'anno. Figlia d'arte, ma arte jazzistica, merita il Premio della Critica con Al di là di questi anni, accorato blues che rispolvera con originalità e padronanza vocale il genere gospel e i suoi riferimenti all'ultramondano.

Ma è una rosa tra le gramigne, e a farle compagnia c'è una ragazzotta siciliana fino alla punta dei capelli. Carmen Consoli fa nascere la sua stella con questa Amore di plastica, ballad atipica se considera quel che sarà poi capace di incidere, ma in grado di farsi valere in virtù di un tappeto di chitarre acustiche ad hoc, un dispiego vocale che in parte paga dazio alle precedessoresse del genere rock (la Caselli, la Pavone, ma anche Patti Smith, la Chapman e a tratti la Joplin…) ma si collega al passato per fare da ponte su una nuova strada del rock italiano, che rilegge tutto al femminile, ma con una nuova personalità, come dimostra la fiera amarezza con cui si parla di un partner insensibile che sa dare solo appunto sentimenti artificiali. Inizio comunque in sordina per la "cantantessa" che sarà apprezzata successivamente, al punto che, con il modesto ottavo posto finale su quattordici, fa intendere che in caso di eliminazione, sarebbe potuta anche essere la vittima eccellente delle giurie di turno.

Già che ci siamo segnaliamo le altre note liete: sempre dalla Sicilia arriva Silvia Salemi, abitino da Dopocresima e capelli a caschetto, è la nuova creatura di Giampiero Artegiani (sempre quello di "Perdere l'amore") che riesce a rinnovare il proprio stile melodico tradizionale, dandole una voce femminile possente e spregiudicata. Quando il cuore non è certo il pezzo per sfondare, ma resta tuttavia un buon biglietto da visita. I soliti sentimenti dell'età verde si colorano di venature rock, qualche frase originale e quanto basta per emergere dalla banalità dilagante, pur strizzando l'occhio ai propri coetanei. Sfonderà l'anno seguente.

Chiude la cerchia di qualità un altro figlio d'arte, che si sistema comodamente e dignitosamente all'ultimo posto: Maurizio Lauzi, generalità Bruno, dopo una lunga gavetta come autore, debutta con Un po' di tempo, pezzo dall'atmosfera sospesa e dallo standard elevatissimo, un testo straordinario, a tratti ironico ("sono anche brutte le tue mani") che riflette con filosofia equilibrata su quanto occorra guardarsi bene negli occhi e nel cuore prima di prendere decisioni definitive in materia di affetti ("Scusi, scusi, dov'è l'amore?"), e lo fa in piena libertà espressiva ("Noi si ha bisogno di un po' più tempo" lo dice alla toscana) cercando una via personalissima dove l'eredità paterna è soltanto una parte e non il tutto del suo background. In questi casi, meglio ultimo che penultimo.

Il resto sarebbe un pianto, anche se un po' ci sarebbe da irritarsi per l'unica band presente che riesce nell'impresa di far rimpiangere la schiera di Cugini di Campagna, Santo California, Collage e affini. Gli O.R.O., per il solo merito di aver scritto la musica di "Vivo per lei" cantato da Giorgia e Bocelli (e testo di Gatto Panceri, mentre la loro versione "Vivo per…" aveva un testo poverissimo), si propongono all'insegna dei più vieti romanticismi con Quando ti senti sola, terribile collezione di melassa che mette un piede nei 70 uno negli 80 e tutte e due nei bassifondi dei 90. Sono questi i nuovi gruppi? I Lùnapop ne daranno una triste conferma.

Quarto posto per l'acronimo Onde Radio Ovest, sopra la Salemi e i Jalisse che si fanno notare ma poco con questa Liberami, che rimanda a certi suoni esotici sicuramente differenti dalla media ma fermi nelle intenzioni iniziali per quanto riguarda quel certo respiro internazionale che avrebbero potuto conferire al progetto, accontentandosi di una innocua cartolina dal Nord Europa, un duo che rimanda giocoforza agli Eurythmics non fosse altro per la barba di Fabio e l'aspetto pallido di Alessandra e forse per questo perde in partenza (ma sapremo bene come andrà un anno dopo!).

Incosistente la falsamente rockeggiante Petra Magoni con E ci sei, Alessandro Mara con una Ci sarò in perfetto stile fotoromanzo, e Alessandro Errico, semidivo televisivo e idolo part-time delle ragazzine, che si atteggia a sex-symbol con Il grido del silenzio, canzone buona per riempire certe pagine di diario.

Una nota di merito va giusto alla bella voce di Olivia Cinquemani che fa del suo meglio con una Sottovoce che invece è cantata a pieni polmoni e denota almeno una certa spigliatezza e solarità di fondo, pur senza firmare certo un capolavoro: ma resta comunque una strada da incoraggiare.

Più di Camilla che dopo diversi passaggi radiofonici approda a Sanremo cercando la nicchia non si sa quanto scoperta del nuovo sex-symbol che mastica ritmi adulti e ritmati ma in fondo non fa che rimischiare cose già sentite, e ammicca paurosamente all'emergente sex-symbol borghese del telefonino intitolando il pezzo con uno dei primi prefissi Tim Zerotretresette. Qualcuno magari abbocca: perché Sanremo è Sanremo, evidentemente.


GRADUATORIA PERSONALE:
1) La terra dei cachi
2) L'elefante e la farfalla
3) Romanzo
Nuove Proposte
1) Amore di plastica
2) Un po' di tempo
3) Al di là questi anni

SHIT SANREMO:
1) Sarò
2) Soli al bar
3) Mai più sola

FRASE DELL'ANNO:
"Ti devo una pinza
ce l'ho nella panza
Viva il crogiuolo di pinze
Viva il crogiuolo di panze"
(da "La terra dei cachi", Elio e le Storie Tese)

PERLE DI SAGGEZZA:
"Perché l'amore viene e va
come una piccola ferita"
(da "Non ci sto", Syria)

MARIO BONATTI

Continua...