2002: Il congresso di Baudo: scenderò tra le rose
di Mario Bonatti


Sembra davvero tornato tutto come cinque anni prima; i Napoleoni erano calati sul teatro dell’Ariston per tentare una virata a una formula e a un livello artistico che somigliavano sempre di meno al reale panorama musicale nostrano, e avevamo vissuto delle edizioni ricche di nuovi contenuti (a parte la pagliacciata datata 1998). Niente da fare, torna Baudo… che poi Baudo lo dovremo rimpiangere nella metà del secondo decennio di inizio millennio, è un altro discorso. Pippo rispolvera addirittura la canzone del suo compare omonimo Pippo Caruso “Perché Sanremo è Sanremo” destinata a perdurare a guisa della sigla di Carosello che è rimasta tale e quale per vent’anni.

Si potrebbe però obiettare sul livello delle canzoni scelte: vediamo, magari troviamo qualcosa di interessante. Avete presente l’effetto di chi osa aprire un armadio rimasto chiuso per anni e deve poi precipitare ad aprire la finestra per far decantare l’aria? Ovviamente troviamo delle belle canzoni, alcune anche bellissime. Ma l’insieme è di un rimettere a posto le cose facendo non uno ma dieci cento passi indietro.
 


BIG
Vincono i Matia Bazar dopo 14 anni. Con l’aria di chi pretendeva maggiore attenzione nelle edizioni passate che guardavano troppo avanti, puntano i piedi e sembrano esclamare: ecco ora che sono andate le giurie particolari, vogliamo vincere e basta, uffa. Promessa mantenuta. Messaggio d’amore, cartolina di bei sentimenti adatta solo per essere diffusa nei piano bar, fa sfoggio della voce rotonda di Silvia Mezzanotte, rendendo imbarazzanti gli accostamenti con la splendida decade degli anni 80 che fecero di questo marchio una sorta di orgoglio pop elettronico. “Mai non ti ho avuto mai… dolce amore mio”: essere o avere? In attesa di sapere se il messaggio sia stato diffuso tramite i già imperanti sms, la canzone vincitrice è sintomatica che la solita solfa è tornata. Troppo facile la melodia e ben confezionata per non relegarla nel calderone delle tipiche vittorie sanremesi.

Sul podio troveremo gradite sorprese, ma facendosi largo tra la folla dei venti big si aprirà lo scenario di una “compilation” tanto assortita quanto fumosa, impegnata a raggiungere vari generi senza dare nuova linfa a nessuno di questi. Ecco dunque il ritorno di Fausto Leali in versione confidenziale che non trova di meglio che farsi accompagnare dalla show girl Luisa Corna, di cui siamo costretti a cibarci le sue doti vocali, in una lenta e noiosa ballad dal titolo già abbastanza indesiderato: Ora che ho bisogno di te. Amori finiti ma che vorrebbero tornare però è finita ma chissà se ricomincia. Il 2000 è arrivato invano.

Ma Baudo è un appassionato di musica lirica: eccolo servito, dopo il boom Bocelli arriva una voce impostata, anzi due. Filippa Giordano, immeritato secondo posto nel 1999, si scopre soprano e resuscita i fantasmi di Irene Fargo con una Amarti sì degna di una fabbrica di laterizi, infelice tentativo di un bolero che sa tanto di “Con te partirò parte seconda”. “Il cielo sa che sono te”: ma si dimenticano i sottotitoli per tradurre queste perle e si salva solo l’acuto finale.

La Giordano ritorna ma per la nuova voce maschile Baudo stravolge il concetto di Big e stende i tappeti al toscano Alessandro Safina, che mai prima aveva inciso dischi di musica leggera. Leggera certo non si può chiamare questa Del perduto amore, già di per sé intitolata con un complemento di argomento più che desueto nel nostro linguaggio. Musiche di un classicheggiante pernicioso, parole che scimmiottano i libretti di famose opere liriche. Dove vuole arrivare Sanremo, ci si chiede?

Rifà capolino persino Claudio Mattone e con lui Fiordaliso. Mancava, nel campionario di casi umani dell’autore filo-Arbore, un bel divorzione con tanto di cause e avvocati: Accidenti a te sarebbe il massimo dell’ingiuria che riesce a dirsi una coppia in crisi che pare abbia fatto l’amore una volta sola per una mezzoretta. Questa povera donna sembra davvero il ritratto di una fallita totale, e gliele canta come se gli giurasse amore eterno a questo cane rognoso: ridicolo senza mezzi termini.

Ma è un Sanremo che ricicla tronfia melodia? Non solo: anche i registri più moderni vanno a riempire il quaderno di doglianze. Che non si dica che Baudo non dia spazio al rock o al pop. A cominciare da quel capolavoro di goffaggine e prosopopea chiamato Grignani Gianluca. In questa Lacrime dalla luna si supera e racchiude la parte ascoltabile di una canzone in un solo riff di chitarra in avvio di un ritornello solo fittizio. Aggrava il tutto la altrettanto goffa similitudine del titolo che vuole mandare un pensiero a chi come lui (si spera anche meglio di lui) scrive canzoni, crea, trova qualcosa dal nulla. Il tema è presto detto: il rocker più famoso del momento se ne sta seduto davanti alla tele a non fare un cavolo tutto il giorno e scrive canzoni proprio come te, caro sconosciuto sfigato musicista che non ti arrendi e speri prima o poi che qualcuno ti si fili: un gioco ipocritra di rispecchiamenti tra la popstar e chi vorrebbe emularne le gesta. In attesa di sapere se il rock è morto, sicuramente è defunto suo cugino che vive in Italia.

Né fanno meglio i Timoria. Orfani di Renga e presto anche di Pedrini, riescono nell’impresa di finire ultimi, vale a dire sotto Mino Reitano e le Lollipop; Casa mia parte già con il confronto di una bella canzoncina della Equipe 84 del 1971, e si situa in un involontario e funambolico riassaggio della stagione anni 70 dei gruppi più o meno storici, ma sfocia in uno smargiasso revival di sonorità internazionali, sia nei riff di chitarra, sia nell’impostazione delle voci, per tacere delle tematiche con un dito di muffa sopra, di chi scappa di casa in cerca di una nuova giovinezza. Lontani i tempi del premio della critica del 1991.

Abbiamo nominato gli altri fanalini di coda: sicuramente trovarli in fondo alla graduatoria era anche abbastanza logico. Per Mino Reitano è un destino, assurto a paradigma della musica vecchia e superata. A nulla gli vale una dignitosa intuizione di Pasquale Panella su canoniche musiche di Reitano stesso che disserta sul paragone canzone e amore da un’angolazione linguistica come sempre da interpretare: a nulla gli vale, tranne che a scartare ben due posti dal fondo, forse riuscendo a impietosire le giurie nella serata finale presentandosi con un “tanto sono ultimo”: in realtà lui voleva solo fare gli auguri a sua moglie per le nozze d’argento che cadevano proprio nel sabato sanremese. Quindi la terzultima piazza può essere un segno che la sua La mia canzone non era così brutta, ma lo erano quella dei Timoria di cui abbiamo detto e la vergogna Lollipop.

Le sei belle figheire che nel 2000 hanno vinto il programma Mediaset “Popstar”, prodromo di “Amici”, hanno la possibilità di consolidare i consensi ottenuti dal folto pubblico televisivo. La loro canzone, già di per sé gustosa come una torta al sapore di plastica condita di acciughe, che parla guardacaso dei sogni che si avverano, si rivela un autentico autogol. Batte forte, forse intendono il cuore, ma anche l’”amore senza limiti” al tempo di “questo ritmo che va”. La loro esibizione è stonata dall’inizio alla fine: quattro su cinque si preoccupano solo di dare la migliore postura di sé quando vengono inquadrate per il loro versetto o di fare un fermo immagine televisivamente ineccepibile sul finale. Il loro cuore deve avere battuto forte, forse consapevoli di valere davvero zero come cantanti, effimere come la bolla di sapone che traduce il loro nome (che almeno richiama a una gradevole canzoncina degli anni 60). Ma forse non hanno mai saputo cantare veramente, come si nota nella versione del disco, dove i vocalizzi più arditi che nella parte conclusiva, sono creati in sala d’incisione e lo si sente lontano un miglio. Tra gli autori si segnala tale Tony Blescia che aveva tentato qualche anno prima di imitare il maggior numero di cantanti affermati in una sola canzone.

Ma danno il loro contributo anche i campioni dei giovani in carica, assurti a Big come da indizione: Ogni giorno di più arriva puntuale come le tasse. I ragazzi della Salerno-bene altrimenti detti Gazosa sono ancora minorenni e infatti si esibiscono solo in prime time, ma non perdono l’occasione di dire anche in canzone che “ogni giorno di più impariamo ad amare… non mi lasciare mai”. Del resto, se si fossero messi a cantare, su quello pseudo rock che rimesta sonorità scandinave e dunque di un rock periferico ed edulcorato, sui massimi sistemi o sull’idealismo hegeliano o sui riti di purificazione del Gange, li avremmo trovati poco credibili. Il problema semmai andava girato a Telefono Azzurro: la solista Jessica denota un talento che la sua pubertà e le sue adenoidi ancora non riescono a esaltare. Si rifarà quando passerà dalla gazzosa alla birra, anche senza (per ora) avviarsi a una carriera solista lusinghiera.

Dunque un Sanremo poverissimo, dove anche alcuni campioni anche di fatto e non solo di nome, stentano a strappare applausi a scena aperta. Luce e ombre le troviamo nel ritorno di Patty Pravo che non osa con la sua L’immenso che somiglia più a un brano inedito del suo momento d’oro che a qualcosa che aggiunga un tassello al suo chilometrico percorso artistico, con in più l’accostamento al capolavoro omonimo di Amedeo Minghi. Abbassa il tiro Michele Zarrillo, che torna dopo un anno e dunque troppo presto, dovendo per forza paragonarsi alla canzone dell’anno precedente, che era molto bella e ariosa, e che ora con Gli angeli deve rifugiarsi in un jazz deboluccio dove solo un viscerale lirismo gli vale una attestazione di stima per buona volontà. Ma il buon Michele aveva fatto di meglio. La mezza cilecca la coglie anche Nino D’Angelo, che si preoccupa fin troppo di un ritmo che vuole ammiccare alla etnomusic ma si sbraca in un esotismo corrivo e un testo piuttosto piatto che rimanda alla tradizione dialettale dei suoi anni alla Vis a partire dallo scontato nome femminile Marì. E Francesco Renga fa vedere di che pasta sono fatte le sue intuizioni melodiche e la sua ampia estensione vocale, ma le Tracce di te che ripropongo l’amore materno come si ripropone una peperonata al mattino (della serie: solo io tuo figlio prediletto mi ricordo di te e vedo i segni del tuo passato), non fanno bene a rinfrescare l’aria pesa che grava su una edizione dove si salvano davvero in pochi. Mentre per insufficienza di prove si assolve da sé il ritorno della vulcanica Loredana Berté che salva la dignità artistica con questa Dimmi che mi ami che si colloca comodamente nel suo repertorio coevo e nei suoi dischi più raffinati della maturità: non un capolavoro, ma già il suo ritorno, e le sue paure di non sentirsi più bene accetta, o anche criticata purché se ne parli, col bisogno di cantare avendo un leggio e Pippo Baudo al suo fianco appena fuori telecamera, tutto sommato è un ritorno da applaudire.

Alla fine la spuntano in quattro, e sono “i veri artisti” parafrasando una canzone di Mariella Nava, presente in questo poker di superstiti insieme a tali Paoli, Ruggeri e al ciclone Silvestri. Ma prima merita un discorso a parte la italianizzata Alexia, all’anagrafe Aquilani, che esordisce nella madrelingua dopo gli esordi in inglese e le tremende hit che, tristemente note, hanno martoriato le orecchie di chi muovendo il sintonizzatore alla ricerca di un giornale radio si imbatteva in “Goodbye, Happy, Tiamotiamo, Gimme love uh la la la” eccetera. Si resta abbastanza sorpresi nel trovarla in piena forma r&b, con questa Dimmi come che davvero ci fa domandare le origini di questa metamorfosi in positivo. Una ventata di ritmo viene proprio da chi non ce lo saremmo mai aspettato: anche senza gridare al capolavoro, questo omaggio alle sonorità Motown può anche meritarsi il secondo posto. Inizio assente, tripudio nel finale con echi di mambo e una voce dispiegata al meglio. Una bella trovata: farla vincere un anno dopo sarà la solita esagerazione.

Dicevamo dei “salvatori”: eccoli, non posso che ordinarli alfabeticamente. Mariella Nava non sbaglia una mossa. La sua Il cuore mio ribadisce il suo desiderio di mostrarsi in modo trasparente, desiderosa di non dare di sé un’immagine distorta dai riflettori. Una serie di similitudini e metafore si susseguono su un ritmo incalzante composto da un tappeto d’archi sostenuto che diventa ormai un suo marchio di fabbrica. Le rime ispirate e l’arrangiamento “euritmico” di Coggio fanno il resto. In una sempre più spasmodica ricerca della voce perfettina e dell’emulazione di questo o quel modello, il timbro di Mariella continua a dare una pista a tutti e tutte.

Gino Paoli torna come sempre a sorpresa e si cucca il terzo posto. Le sue canzoni d’amore sono una miniera inesauribile, lo stile è inconfondibile ma nessuna somiglia a un’altra. Un altro amore è una nuova dichiarazione alla sua Paola. Alla ricerca di intuizioni poetiche dell’inciso si contrappone una semplicità disarmante nel refrain che lascia in eredità dei concetti scarni ma profondi sull’idee in amore di uno che ha molto amato. Dolcissimo arpeggio di chitarra e terzo posto più che meritato.

Enrico Ruggeri vuole dare un altro segnale di ciò che succede al mondo, grazie anche alla sua compagna Roberta alias Andrea Mirò che è l’autrice di questa Primavera a Sarajevo che manda una cartolina tutt’altro che di circostanza alla città, attualmente capitale della Bosnia Erzegovina, martoriata dalla pulizia etnica della metà degli anni 90. Un registro che richiama le marcette popolari, una sorta di samba del vecchio continente secondo la lezione del cineasta Kusturica. Un respiro di vita della gente comune che ha ripreso a soffiare nella città già ricostruita nel ricordo delle sue vittime, e che vuole riappropriarsi del ruolo di simbolo di una cultura antica. Enrico pone l’accento sulla balalajka che “ancora suona”, perché Sarajevo non è morta ma solo profondamente ferita. Parole e luoghi che richiamano alla realtà locale, di cui ignoriamo anche il significato, calano il testo in una realtà da testimone oculare, e riscopre un aspetto sempre poco sviluppato di un Ruggeri viaggiatore. Melodia facile e scorrevole, facendo un paragone forzato tra i capisaldi del Festival, sarebbe una involontaria risposta a "L’italiano" di Cutugno su un orgoglio nazionale un po’ più autentico e significativo di quello proclamato quattro lustri addietro con intenti più ammiccanti e meno patriottici.

E infine Daniele Silvestri. In smoking per fare un favore a sua madre. Cosa vuol dire Salirò? E’ uno sberleffo programmatico? Un po’ tutto. La terza partecipazione del Sil a Sanremo non lo vede trattare temi impegnati, e lo stesso ritmo rimanda alla disco music. L’idea di risalire dal fondo fino ad arrivare altissimi, o risalire le chine dopo un evento infausto o ardue prove esistenziali è solo un pretesto per un percorso semantico che fa di nuovo gridare al miracolo. “Salirò tra le rose” è una citazione d’autore tra le numerose qui presenti; l’ambivalenza caldo e freddo dell’inciso fa anch’essa da ponte e contrappone il contrasto basso/alto, dove pur di uscire dallo status di chi è sceso troppo si potrebbero sopportare altri disagi, e leggendo con attenzione si può notare proprio una certa inerzia, laddove il proclama del titolo resta sulla sponda del “vorrei ma non posso” o delle promesse ancora non mantenute. Un titolo al futuro che è solo desiderio e non gesto concreto, e rimanda alle nostre debolezze umane, ma può anche fungere da stimolo reattivo. Anche dal disimpegno di questo riconosciuto talento naturale del cantautorato ci sono da apprendere preziose idee. Il pezzo nel complesso è piacevolissimo all’ascolto, affastellato da straordinarie scelte poetiche e musicali, tra le quali spicca quel bridge in cui si incita “pompa” (ripetuto alla fine), inteso come salita lenta e graduale tramite un meccanismo apposito, che a sua volta richiama la nostra forza di volontà. Silvestri farà di questo pezzo anche una garbata coreografia, ospitando nella serata finale l’attore Fabio Ferri che si produrrà in un balletto minimalista dove nel ritornello muove dei passi circolari di danza e negli altri momenti resta immobile con aria compiaciuta, proprio una negazione del concetto di (ri)salita. Intanto Daniele Silvestri non sbaglia un disco…


NUOVE PROPOSTE
Alla voce: peggiore annata delle Nuove Proposte, il risultato della ricerca dà 2002. Una catastrofe, con una ridicola formula e l’ennesimo baluardo del pausinismo a spadroneggiare.

La mediocrità impera. Baudo opta per una formula a eliminazione, e una giuria di qualità con voto palese che si unisca al voto delle solite misteriose giurie. Purtroppo agli eliminati del primo turno non spettano i pareri degli “esperti” (va bene Cecchetto, ma Vanzina?), e questa disparità fa gridare allo scandalo aldilà del fatto che, come sempre, le poche proposte degne di nota sono quasi tutte uscite puntualmente al primo giro. Inutile aggiungere che, in diretta televisiva, dei personaggi noti non possono certo permettersi il lusso di sparare voti clamorosamente bassi, e infatti vedremo solo qualche 5 sparuto, un 6 sembrerà come sputare in faccia al cantante, e giù ottinovidieci che neanche allo Zecchino d’Oro.

Bisogna iniziare dalla vincitrice: purtroppo è l’anno di esordio di Anna Tatangelo, sedicenne del Sud Pontino, estremo baluardo del pausinismo, delle storie d’amore smielate, della voce in piena tempesta ormonale di fronte al quale ogni maschietto perderebbe la tramontana (parafrasando una canzone di un Sanremo tristemente lontano). Doppiamente fragili è riferito agli occhi: occhi fragili, forse per il sonno, o forse perché è notorio che a sedici anni gli occhi siano fragili; “scrivo favole a metà su fiori che nessuno legge”, questa è solo una delle tante assurde metafore che vogliono descrivere gli stati d’animo di una adolescente davvero fuori dal mondo, che rappresenta una generazione che di fatto è tutt’altro che remissiva in questo modo, che sembra sola e dimenticata salvo poi gettare un ponte verso altri occhi fragili al maschile, di cui si ignora la provenienza, se sia il suo amore o uno che gli piace o uno che non se la fila. “Io non posso far di più”: ma che deve fare e per quale scopo? Insomma, la canzone riesce a irritare l’orecchio di chi ascolta, ma una ragazzina ben sponsorizzata che canta su una base ben orchestrata, e un arrangiamento da manuale benché di plastica non può non vincere, non è la prima volta che succede a Sanremo. La Tatangelo purtroppo non sarà una meteora.

Sarebbe stato un segnale importante se il secondo posto di questa sezione Giovani fosse diventato il primo: Valentina Giovagnini da Arezzo è l’unica vera rivelazione di quest’anno e riesce comunque a imporre l’attenzione verso quella frangia di pubblico e critica un po’ più esigente, anche se il risalto per un primo posto le avrebbe dato un’occasione unica per proporre nuovi lavori negli anni successivi, lavori che purtroppo sono rimasti lettera morta oltre al suo unico "Creatura nuda". Valentina non è autrice dei pezzi che canta, ma è polistrumentista e sfoggia un bagaglio culturale al di sopra della media. Il progetto è realizzato nella scuderia di sponda Zarrillo, con i suoi fidi collaboratori Vincenzo Incenzo e Davide Pinelli, che creano atmosfere medievali, vagamente new age ma senza dimenticare una ricerca melodica che possa guardare anche al pop britannico. Una cadenza a metà tra il bolero e un tango su uno sfondo fiabesco di provenienza celtica è tutt’altro che un sincretismo fine a sé stesso. Lo stesso uso della voce è manipolato elettronicamente per dare effetti originali insieme alla malleabilità della bella voce da contralto di Valentina: Il passo silenzioso della neve ci trasporta in un mondo nuovo che ricostruisce con un rinnovato lirismo lo stato d’animo di una relazione conclusa. Per essere una Nuova Proposta, è una proposta decisamente nuova. Un’orchidea tra volgari lattughe.

L’elenco degli altri partecipanti è una sfilza di burattini con i fili appositamente costruiti sulla scia delle nuove tendenze delle masse a basso contenuto anagrafico. Il romano Simone Patrizi coi capelli rasta si chiede Se poi mi chiami e ammicca ai giovani telefonini-dipendenti; al napoletano Gianni Fiorellino che canta Ricomincerei cade il santino di Gigi D’Alessio dalla tasca; Marco Morandi perde l’ultimo treno per diventare un dignitoso figlio d’arte, dimostra di saperci fare nel pop ma si accontenta davvero di poco, emulando il padre nel sentirsi molto meno giovane dell’età che ha, e si chiede Che ne so sulla solita morosa che è da qualche altra parte; idem per Andrea Febo che va All’infinito e non a caso reitera la melodia nel finale, e si compiace degli arrangiamenti elettronici e del nutrito vocabolario adolescenziale; peggio ancora Daniele Vit con Non finirà che è un blues banalissimo con la sola funzione di uno strumento utile per esaminare la sua abilità vocale più che una bella canzone. Taluni confondono la sezione Nuove Proposte per un ufficio di collocamento per lavorare da vocalist o coristi presso artisti famosi o trasmissioni famose o in qualche musical: noi, che stiamo dalla parte opposta del video, insistiamo che vogliamo belle canzoni e bravi cantanti.

Neanche i gruppi si sottraggono allo scenario mediocre: arriva puntuale il clone dei Lùnapop, tali 78 Bit che cantano all’unisono di una Fotografia che come in centinaia di canzoni passate va debitamente fatta a pezzetti in quanto ritrae le sembianze della tipa che lo ha scaricato. Poco originale anche la similtudine dei Botero, nome alquanto ingombrante che a dispetto dei soggetti obesi ritratti dall’omonimo pittore, non invade lo spazio ma rimane nelle intenzioni di un pop sperimentale che alla fine non sperimenta e preferisce la frittata alla nouvelle cuisine: dicono Siamo treni con un tanto di ritmo cadenzato: non ci siamo davvero. E infine, gli Archinué che si impongono all’attenzione con un suono diverso, pieno di ritmo, allegro, bucano clamorosamente ne La marcia dei santi che rimesta le ballate dei gruppi alternativi con spruzzate di Guccini a cui il solista sembra ispirarsi nel timbro di voce, e nella trovata di allungare il testo ripetendo le frasi, mettendoci qualche piccola variante e gigioneggiando sopra le righe nell’interpretazione. Più che una marcia alla fine risulta il funerale di un genere musicale vecchio di anni che non si può certo far rivivere, facendo rimpiangere anche i gruppi emergenti cosiddetti folk del tipo Modena City Ramblers e compagnia, che però erano stati bravi nel metterci qualcosa di nuovo.

Troviamo qualcosa, guarda caso, tra gli eliminati, sei partecipanti di cui ben quattro gruppi e un duo. Poco male per i Plastico, band con voce femminile, che non si accorgono di essere giunti già in ritardo con l’amarcord del Fruscìo, ovviamente quello del vinile, nella fattispecie il vinile alla fine del disco su un piatto che non ha il ritorno automatico del pick-up, operazione nostalgia che non si lega affatto a un ennesimo tentativo di imitare gli Ustmamò, veri caposcuola ma spesso di una classe di asini: di sicuro la mitica Mara Redeghieri non canta con quel timbro da svampita. Poco male anche per i neutri Offside, fatalmente “fuori gioco” e giovanilistici a dir poco a decantare le qualità di una ragazza che ti si fila: Quando una ragazza c’è non mangi più non dormi più non pensi più, e “passi un dito su di te dove ti ha baciato lei”. Chiamate la neuro, pago io!

Uno spazio per Giuliodorme ci poteva stare: prodotti da Enzo Miceli e per la proprietà transitiva da Daniele Silvestri di cui aprivano i concerti, sono schietti, originali nelle idee anche in quelle surreali, evocando un Odore a metà strada tra l’olfatto e bizzarre sinestesie cromatiche, un pezzo di energia pura mal compreso, e non è neanche la migliore situazione da loro ideata, se mai qualcuno incappasse nella loro bella opera prima Venere. Niente da fare: la giuriadorme.

Ma anche dormendo, sicuramente la giuria stessa sarà sobbalzata dalle sedie nel sentire annunciare un pezzo intitolato Ho mangiato la mia ragazza, dei romani La Sintesi. Titolo destinato a essere eliminato anche prima di iniziare a cantare: non a caso questo gruppo si imporrà nel panorama underground come un’autentica galleria di nuove suggestioni in chiave pop elettronico, dai temi politicamente scorretti a soluzioni spiazzanti e percorsi zigzaganti che si affrancano dai binari precostituiti. Già questo esordio denota un certo coraggio: questa confessione di omicidio e cannibalismo fino all’occultamento di cadavere e sezionamento, viene portata a un dottore, presumo psichiatra, nella speranza che almeno lui comprenda come l’io cantante, ben lungi da commettere un delitto, voleva semplicemente inglobare dentro di sé le cose per le quali si era innamorato della sua compagna. Parole taglienti che fanno a pezzi con pochi colpi di ascia gli alberelli amore/cuore che a Sanremo non finiscono di proliferare. Inutile dire che è stata già una grande vittoria che Baudo li abbia fatti passare tra le tante canzoni selezionate.

Chiude la passerella un paio di situazioni che richiamano ai sempre più imperanti telefonini. Eliminati anche due baldi giovani che si fanno chiamare Dual Gang, in “omaggio” alla dual band telefonica. Pezzo banalotto sulla avvenenza delle fanciulle scosciate e scollate più belle da marzo in poi al punto di chiedersi che forse Sarà la primavera, sia a presentarle più sensuali ma anche a innalzare le quote maschili di testosterone: eppure questo ritmo decisamente accattivante e coinvolgente sarà uno straordinario successo estivo, anche in virtù di una versione leggermente diversa che elimina un rap iniziale davvero stantio: una rivalsa di una canzone bistrattata dalle giurie sanremesi va sempre plaudita.

In un festival povero, era giusto chiudere con la canzone più brutta, ma brutta davvero. Con un Celentano davvero puoi aspettarti di tutto: l’erede al trono Giacomo torna sulla scena musicale dopo anni di permanenza all’estero, torna nuova proposta malgrado un esordio di un paio di lustri precedenti con un album prodotto da Mario Lavezzi che non era da buttare via; ma che schifo questa You and me (che rima con “l’amore è fatto così”) ennesima lamentela di uno che si danna l’anima per una che non ci pensa proprio, chitarra ritmica e violini tanto per fare bella figura, voce irriconoscibile, un po’ d’inglese tanto per dire di non aver vissuto invano oltremanica e dulcis in fondo una strofa rap con una voce femminile che smentisce tutto e dice che insomma è anche colpa di lui, ma forse con un sms si può fare pace: sul palcoscenico compare una teenager con telefonino e zaino, tanto per allontanare ogni dubbio su quale fosse il target della canzone: a me viene da pensare a qualche subliminale pubblicità di una tariffa TIM, alla quale anche i Gazosa avevano fatto pubblicità, ma, ed è tutto dire, senza riuscire a partorire un mostro di canzone come questa. Aridatece l'età dell'oro di sua sorella Rosalinda... o la mamma che canta smargiassa: chi non lavora non fa l'amore, questo io ho detto a mio marito...

 


FRASE DELL'ANNO:
Ma ogni volta mancava qualcosa.
Sì: mancava quel piccolo gesto,
e alla fine tu
(da "Un altro amore", Gino Paoli)

PERLE DI SAGGEZZA:
Io non posso far di più,
canto storie a testa in giù,
dentro i giorni miei,
oltre i grandi sai
(da "Doppiamente fragili", Anna Tatangelo)

MARIO BONATTI

Continua...