2003: Tutto quello che Pippo
di Mario Bonatti


L’edizione del 2003 è un malinconico bis di una edizione che somiglia sempre più a sé stessa, e segnerà la fine di un ciclo sanremese. Lo stesso ritorno di Baudo nel 2007 sarà apportatore di nuovi segnali, e arriverà dopo le buie parentesi della triade Ventura-Bonolis-Panariello.

Il Baudo sempre meno nazionale e sempre più popolare tenta di rinnovare il suo stile festivaliero, e realizza una serie di autoreti, il più clamoroso dei quali è nelle due soubrette che lo affiancano, non tanto perché Serena Autieri e Claudia Gerini valgano meno di altre colleghe degli anni precedenti, quanto per l’idea davvero assurda di farle cantare con una certa frequenza, più o meno in prossimità di ogni uscita di un Big. Perché?

Tornando alla musica, dobbiamo notare un certo ristagno anche nella sfilata dei sedicenti campioni. Le situazioni di rilievo si mantengono sfortunatamente sulle solite percentuali, e pensando a edizioni passate dove questa percentuale era molto migliorata, si ha la consapevolezza che fare un buon Festival non è così possibile. Ma succede di rado.
 


BIG
Vince Alexia, osannata un anno prima con una ventata di ritmo e un secondo posto, e adesso viene acclamata come vincitrice aldilà delle sue qualità e dei suoi meriti artistici racimolati nei suoi anni di carriera. La ballad blues Per dire di no che le fa guadagnare il gradino più alto ha tutte le carte in regola per essere una canzone vincitrice, anche troppo. Le parole della vecchia volpe Armando Salerno (già con Mango) e la musica della stessa Alessia Aquilani si fondono perfettamente, ma gli slanci, le pause, i pieni e i vuoti, e i cori sono già sentiti, e raccontano quasi del nulla totale, una storia d’amore tra attrazione e ripulsa e una marea di metafore gonfiate. Dal punto di vista editoriale è la vittoria adatta per lanciare il Festival che soffre anno dopo anno della crisi degli ascolti radiofonici e delle vendite degli album dei rispettivi artisti, (per tacere dei singoli sempre più invenduti) ma non basterà.

E’ un podio che strizza l’occhio, indicando tre proposte che si possano equivalere e completare. Da Alexia a Alex il passo è breve. Il “maestro” Britti rappresenta più di Alexia il target giovanile, e finisce secondo, anch’egli dopo essere stato indicato tra i favoriti. Cantautore che ammicca ai teeanger, è come tutti sanno un bravissimo sessionman. Ed eccolo servito: inizia il pezzo con un virtuosismo di chitarra, l’orchestra introduce un accattivante tappeto ryhthm’n’blues di fiati e poi lui attacca la solita tiritera delle sue storie al limite dell’inverosimile, in un percorso a ostacoli dove si trovano imbarazzanti rime e flash improponibili di vita quotidiana, con cadute nel melenso. Alex prende 7000 caffè per arrivare prima dal suo amore, una storia a distanza “che se vuoi non finirà mai”, dove mancando lei, lui può anche arrangiarsi da solo. Niente di cui si sentiva il bisogno.

Nel terzo posto si sente la mano di Baudo, che con una premiazione sapientemente teleguidata vuole innalzare un artista emergente e indicare come a volte vengano premiate le canzoni e non l’artista che campa di rendita. C’è tutta questa morale nel piazzamento di Sergio Cammariere, che trova finalmente attenzione dopo una lunga gavetta, e dopo avere tentato di lanciare diversi artisti negli anni passati, con esiti alterni e senza l’opportunità di proporsi personalmente, laddove il suo sodale Roberto Kunstler ci aveva provato nel 1985, prodotto da Mimmo Locasciulli, ma senza fortuna. Tutto quello che un uomo tuttavia, ascoltando anche parte della discografia del pianista romano, è la sua canzone meno riuscita, la più piatta, la più scontata, soprattutto nel testo che ribadisce la dedizione totale in amore. Non è il primo artista non-sanremese che deve accontentarsi di portare un pezzo corrivo. Sicuramente l’impronta del bravo artista si sente e la terza posizione è più che meritata, poi conoscendo il suo album e i successivi si scopre con piacere che sa fare anche meglio e molto. Quindi meglio lui di altri. Meglio pochi altri di lui.

Tra i promossi a pieni voti, non manca come sempre Enrico Ruggeri, in punta di fisarmonica, affiancato anche in voce dalla sua compagna Andrea Mirò. E’ ammirevole la disponibilità di Enrico, artista rock di levatura superiore, nel presentarsi con estrema regolarità al Festival di Sanremo quando ha saputo dimostrare di non averne tanto bisogno per mantenere viva quella che ormai si può considerare una leggenda del cantautorato italiano. Nessuno tocchi Caino parla già dal titolo, che è l’esatto nome della associazione che si batte contro la pena capitale. Un dialogo dell’anima in punta di poesia, lucidissimo, dove parla la voce interiore del boia, e quella del condannato che spera fino all’ultimo in una clemenza. Il boia ha la voce di Enrico, spietato e a tratti compiaciuto come se non fosse sua la colpa di fare quel mestiere, ma in pieno possesso delle sue facoltà di uccidere legalmente senza che gli sia richiesto di provare rimorso e dotato anche lui di una certa fragilità al ricordo delle prime esecuzioni e nel dover ammettere che anche lui lo fa perché deve portare uno stipendio a moglie e figli. Per la vittima, dalla voce di Andrea, c’è solo un sentirsi fuori da quel mondo che lo condanna, e parte integrante in quel mondo che può perdonarlo, graziarlo, e che forse avrebbe fatto qualcosa per educarlo se solo non si fosse trovato nel paese sbagliato nel momento sbagliato. “Il mondo non passa di qui”, quel che si compie è qualcosa che ai nostri giorni appare fuori dal mondo, se anche l’esecutore legale non riesce a essere del tutto indifferente. Eppure questo succede in numerosi paesi del mondo, e lo scenario di assurdità rimane sullo sfondo all’idea di un “gesto di pietà” che potrebbe alzarsi per ogni condannato, se solo l’uomo e le sue leggi, decidessero a favore della vita con la stessa determinazione che li aveva portati a dare sentenza di morte.

Per un Ruggeri che fa riflettere, altri che fanno cadere le braccia, parafrasando Bennato. Ma conviene prima soffermarsi sulle buone proposte. A cominciare da Cristiano De Andrè, che porta un bel quadro poetico sulle condizioni disagiate degli immigrati, senza facili pietismi, in una sorta di ricerca archetipi di un’ideale di libertà per un Un giorno nuovo che ne sia un agognato coronamento. De Andrè jr. sa assemblare con cura i suoi folk con il tappeto d’archi per una situazione musicale sobria e di buona fattura: la classe non è acqua, specie laddove molti di acqua ne fanno.

Antonella Ruggiero non riesce a riavvicinarsi al podio, ma non ne sbaglia una come sempre. Di un amore dà una lezione a molte leziose situazioni a sfondo lirico e contemplativo, offrendo un dispiego melodico di bella fattura e parole non banali per una assenza di sentimenti che scava nell’anima. Prendete esempio da lei e dal suo fido Roberto Colombo per avere un’idea di come si possa stupire a Sanremo parlando d’amore.

A proposito di amore, ecco Giuni Russo che ritorna dopo un esordio che si perde nella notte dei tempi, quando duettava nientemeno che con Sacha Distel. La sua partecipazione è un tristissimo canto del cigno, a pochi mesi dalla sua prematura scomparsa. E canta Morirò d’amore. Anche qui troviamo come sfondo una situazione che richiama alla lirica in maniera propositiva, rafforzata da arrangiamenti avveniristici che ne conferiscono un vestito nuovo. Giuni nell’inciso canta come da un vecchio disco, e sul finale gorgheggia da soprano in modo tutt’altro che compiaciuto, e nella sua lotta contro il brutto male, c’è tutto l’eroismo di certi personaggi verdiani o pucciniani. La sua compagna di sempre, Maria Grazia Sisinni, sembra dedicarle questo addio. Una pagina toccante in un Festival con poca anima.

Ed ecco che la presenza dei Negrita è un sospiro di ritmo. Buona anche la loro Tonight, che ci conduce nel mondo dei locali notturni dal punto di vista di un avventore che si catapulta in modo totalizzante nel vortice, forse sotto effetto di qualche pillola, ma con sprazzi di lucidità volti a “utilizzare tutto il“ suo “fair play“. Pregevole il dispiego quasi acido delle chitarre per questa cartolina dalle discoteche molto aderente alla realtà, come suole fare questa rock band, che ha saputo fotografare il momento presente, equilibrando con garbo un linguaggio poetico innovativo e evocativo con la verosimiglianza del vissuto metropolitano, fotografata con lo sguardo riveduto e corretto dell’uomo della strada.

Bene anche Silvia Salemi, sempre prodotta da Giampiero Artegiani, con una divertente Nel cuore delle donne, che si fa apprezzare per il ritmo accattivante, e la capacità sempre più rara, di risultare orecchiabile senza essere banale, grazie anche a un discreto impianto pop e un buon percorso poetico che tenta di descriverne la psicologia, anche se in maniera del tutto sommaria e senza pretese.

Un gradino più in basso la coppia formata da Federico Stragà e Anna Tatangelo: il primo, presente qualche anno fa, si presenta sulla scia di una smargiassa serie di hit radiofoniche, la seconda d’ufficio avendo vinto inopinatamente la Sezione Nuove Proposte la passata edizione. Abbinamento che sa tanto di operazione 2x1, anche considerando che la canzone è stata scritta da un autore che ha poco a che fare con questi due: il bravo Bungaro, coadiuvato da Claudio Passavanti, scrive un bel pezzo anche degno di Sanremo, con un bel testo che riesce a disegnare con abilità insolita i sentimenti di due giovani innamorati. Evidentemente a lui le porte del Festival erano chiuse, e devono avergli chiesto l’onore di figurare almeno tra gli autori, prestando il pezzo a due che non potevano mancare tra gli invitati. Volere volare riprende casualmente il titolo di un film di Maurizio Nichetti, perché inizialmente il titolo era nientemeno che “Volare”, il che ha subito suscitato il veto di Franca Gandolfi, vedova Modugno, sull’utilizzo del “secondo titolo” di quella “Nel blu dipinto di blu” che di lì a qualche anno sarebbe stata depositata anche col titolo che l’ha resa famosa al mondo. Scelte discutibili, tuttavia questa operazione, considerato il nulla che farà Stragà e il troppo che farà la Tatangelo, è un’altra occasione sprecata di fare qualcosa a Sanremo che non sia nel solito Italian style.

E promossa risulta anche Iva Zanicchi, troppo poco per evitare di indossare la maglia nera, ma a modo suo elegante e tutt’altro che demodè, o demodè con classe, in questa argentina Fossi un tango che ridisegna le antiche similitudini a sfondo sensuale del ballo sudamericano. La sua voce vince la cura del tempo, e non è poco.

Tutto il resto è quasi noia. Syria arriva bella pimpante con una canzone di Jovanotti intitolata L’amore è e già non è un bel biglietto da visita. Il brano alla fine si risolve solo in un fischio che ammorba per l’intera durata su un fastidioso ammiccante registro e definizioni sull‘amore presi dal bestiario di Lorenzo Cherubini ancora sotto shock per la sua recente paternità.

Anna Oxa, sempre più con fare da diva, proclama Cambierò, ma non dice che cambia in peggio: pezzo che si trascina a fatica con riferimenti jazz, scimmiottando la Halliday e la Piaf e anche sé stessa: melodia monotona nell’inciso, il ritornello in parte riaggiusta le cose. “L’importante è crederci”: e la Oxa ci crede fin troppo, ma nel 2005 farà anche di peggio, sotto certi aspetti.

Luca Barbarossa si fa cogliere impreparato dall’invito di Baudo e non trova di meglio che raccontare di una vecchia prostituta di una vecchia casa di tolleranza soprannominata Fortuna (la donna, non la casa) e del composito universo di frequentatori che la andavano a trovare. Il ricorso al folk nostrano e una filosofia spiccia se agli inizi costituivano la freschezza e l’originalità dei suoi esordi, a più di vent’anni di distanza non ne rappresentano il meglio del pur bravo autore capitolino, e infatti il ritornello che ricorda un pezzo di De Gregori, scritto da suo fratello. “Balla balla… mia dolce dea dell’amore”: se non era chiara la similitudine tra ballare e fare altre cose, in tutte le canzoni di ogni tempo e luogo, adesso non ci sono dubbi. Il pezzo comunque è piuttosto debole.

Debole anche il ritorno di Amedeo Minghi, che si colloca addirittura al penultimo posto con Sarà una canzone: piazzamento forse ingeneroso, ma le giurie, per quanto sempre discusse e discutibili, talvolta non perdonano. Minghi produce una buona melodia ma già sentita per un testo inconsistente, e vista la sua abilità nel porgere i versi, non sono parole che possono passare inosservate. Sembra si sia persa la lezione di Panella di qualche anno fa, arrivando a somigliare piuttosto a Venditti, e non è un complimento. Il maestro non gradirà l’esito di questo suo infelice Festival.

Fa cilecca anche Nino D’Angelo: ’A storia ‘e nisciuno, sarebbe la storia di nessuno, cioè di uno che non è nessuno ma è un boss della camorra. Non si capisce granchè di questo personaggio, figlio del mare da buon napoletano, che a 18 anni mette incinta “una puttana del quartiere” e gliela fanno sposare, poi si dà alla malavita, diventa boss per caso con due schiaffi dati a uno, diventa poligamo e latitante, perde tre dita sparando (manco fossero stati i petardi), quasi come se fosse costretto a fare il delinquente, come se volesse pentirsi ma non ce la fa, forse non vuole, forse non può. E come se non bastasse, ecco “’o mare”. Prima andava a guardarlo per sfogarsi, ma a 70 anni non più, perché non lo riconosce più. Va bene l’inquinamento, ma se ne ignorano i motivi reconditi. Insomma davvero dura stare dietro a questa idea dell’ex scugnizzo che era anche buona, ma naufraga nel mare (rieccolo) delle mille idee, con la terribile aggravante di una voce alla Aldo Giuffè che anticipa o posticipa la melodia cantata da Nino, a volte facendosi voce narrante, nel complesso fastidiosa all‘udito.

I peggiori però sono gli Eiffel 65, che strombazzano a Sanremo come coloro che hanno dato un vestito nuovo alle vecchie canzoni, arrangiandone alcune in chiave mostruosamente techno (ne cantano anche alcune nel siparietto pre-gara, aiuto!), ma di fatto avendo solo inciso soprattutto un pezzo dove alcuni titoli erano messi qua e là. Quelli che non hanno età rispecchia fedelmente il loro modo di fare musica, o sedicente tale: ritornello corrivo al massimo e inciso che pompa di brutto i suoni acuti similtastiera e i bassi, per tacere delle vuote parole, autentica filosofia da hard discount e della tremenda voce di plastica del solista.

Ne rimangono fuori tre, costretti per loro natura a collocarsi a metà strada, né bene né male. Fausto Leali, fortunatamente senza ingombranti partner femminili, pesca una canzone di Gatto Panceri, molto bravo nei testi, ma in questa circostanza meno incisivo nella melodia, molto poco rock e molto più sanremese. Eri tu, sempre i soliti rimpianti in amore. Preferiamo il Panceri felice, la sua solarità d’artista lo merita.

C’è anche il ritorno di Lisa, terza nell’edizione farsa del 1998. In una canzone intitolata Oceano è lecito aspettarsi melodie molto aperte, testi evocativi, tutto ben confezionato sotto l’egida di Mauro Malavasi. Ma dopo che ne è di questa artista che non faccia pensare a una partecipazione puramente riempitiva, buona solo per rimpinguare il cachet di Lisa stessa nelle sue serate?

Chiusura d’obbligo per la inedita coppia Gerovital formata da Bobby Solo e Little Tony. Un’idea in stile Bigazzi esalta la loro immagine di eterni ragazzotti: Non si cresce mai, ballad acustica senza tanto rock ma neanche tanta melassa, idea non freschissima, quindi molto rassomigliante ai due sessantenni, che un po’ fanno tenerezza ma un po’ anche se la cavano interpretando con garbo e senza esaltarsi come altre vecchie glorie che tornino a calcare il palcoscenico. La giuria non li porterà sopra un quintultimo posto, e i due si consoleranno prendendosi il primo posto della giuria di qualità nella prima serata, il cui peso era relativo ed erano anche la metà dei partecipanti. Meglio di niente.


NUOVE PROPOSTE
Si era detto che la peggiore annata della sezione Giovani fosse quella del 2002. Ascoltando invece queste del 2003 (che chiudono un ciclo durato venti festival, infatti spariranno nel 2004), sembrerebbe che siano queste a meritarsi la palma di peggiori. Tuttavia, a volere essere pignoli, non meritano di finire all’ultimo posto, in quanto, in questa edizione accade qualcosa che fa letteralmente gridare al miracolo, o forse no, forse era dipeso dalla qualità stessa delle canzoni. A farla breve, il bello è che tutte le canzoni delle nuove proposte fanno ribrezzo, tranne due. Una vince il premio della critica, e l’altra il premio della giuria. Se non è un miracolo questo…

Anche le giurie più incompetenti potevano fare davvero poco contro questa assurda carrellata di proposte che a definire musicali si rischia di offendere i musicisti. Le chiameremo canzoni in attesa di concepire un neologismo adatto. Ovviamente rientrano un po' tutte le categorie musicali che si sono avvicendate in questi anni: le romanticherie, le velleità rock, il sedicente pop raffinato, fino alle solite cose per adolescenti, e tracce di pausinismo neanche tanto vaghe. Le cose peggiori arrivano dalle voci femminili, per fortuna riscattate dalle due affermazioni di cui parleremo più avanti.

Come si fa infatti, nel 2003, a sopportare ancora una canzone che urla "amami per sempre" (Manuela Zanier in Amami) o peggio ancora "Vorrei regalarti l'infinito" (Daniela Pedali in Vorrei), o ancora peggio tale Verdiana (in Chi sei non lo so) che si sbrodola dicendo "chi sei non lo so ma guardandoti negli occhi ti riconoscerò" che neanche Carla Boni o Flo Sandon's avevano osato tanto? E cosa dire di fronte a una fastidiosissima voce nasale con accento albanese di Elsa Lila che parla di una Valeria che è stata sedotta e abbandonata e tradita dalla migliore amica, ma ancora non lo sa, sebbene anche lei (si spiega) sia di facili costumi? E una Jacqueline Ferry che sfoggia pseudo relazioni a due tra il virtuale e un etereo reale dicendosi Vicina e lontana, spudorata imitazione di Elisa col timbro di Alanis Morrissette?

Ma occhio a Maria Pia con i suoi Superzoo. Si mangia Tre fragole per sfuggire alla realtà? Possibile che nessuno si è accorta di questa spudorata quanto banalissima esaltazione delle pillole dell'estasi? E che orribile voce di plastica.

E amaris in fundo, non poteva mancare la giovane promessa, fortunatamente non mantenuta. Alina, dal basso dei suoi undici anni, canta e decanta le lodi di Un piccolo amore che non sa come dirlo perchè poverina è timida e piccola (ha dodici anni), e sogna in cameretta: i più accaniti modaioli suoi coetanei si saranno vergognati di dedicarsi a vicenda una schifezza di questa portata, talmente orribile da meritarsi la seconda posizione, ma probabilmente in modo del tutto casuale, in quanto era davvero difficile, anche secondo le perverse logiche delle giurie festivaliere, stilare una graduatoria sensata per questo ricettacolo di spazzatura pop, dove è davvero imbarazzante decretare una terza posizione di termini di qualità.

La suddivisione per sesso era infatti l'unica maniera per dare una sparuta classificazione di questo coacervo. Le voci maschili non sono di meno delle colleghi in gonnella. A cominciare da quel virgulto di Gianni Fiorellino, che filosofeggia su se o sul ma di chi doveva fare ma non ha fatto, interprentando con un piglio di cantante vissuto, magari anche sicuro di vincere. Bastava un niente: la terza parola ci sembra riassuma idealmente il giudizio. Sono figure maschili rammolite, in cerca di qualche svolazzo in dolce stil nuovo, ma di nuovo non c'è nulla. Anzi di nuovo c'è una sindrome da "servi della gleba".

Filippo Merola sussurra "Mi sento libero di amare solo te" chissà se lei lo sa; Marco Fasano strimpella con fare da countrysinger e si dice da solo E già... e sta bene pure da solo. Roberto Giglio non sa dove sia la sua squinzia, ne sente l'odore e mette in mezzo Cento cose sperando che tra queste ci sia anche un po' di lei, melodia orecchiabile tra le poche ad avere qualche seguito sulle modulazioni di frequenza, ma apportatrice del vuoto cosmico in fatto di idee e scelte poetiche. Daniele Stefani, dalla voce sciaguratamente impostata, si affida a una luna che non si spegne mai e la chiama Chiaraluna, probabilmente dopo un bel due di picche rimediato da una che si chiama Chiara, ma no è la ganza di turno che è bella come la luna, o forse non l'ha capito neanche lui.

Ma attenzione che ci sono anche i gruppi. Gli Allunati, a proposito di luna e di due di picche, lasciano la porta aperta a colei che ha fatto le valigie. Chiama di notte, basta che torni che io sto alla canna del gas. "L'amore passa e non saluta mai": che metafora originale! Ma attenzione a non "scivolare da quella stella che ho scelto per noi". Dove siamo arrivati? Ma fate un po' gli uomini. E poi ecco gli Zurawski. Nome così elaborato per una ennesima piatta serenata a una "Lei che... gravita attorno, riempie il giorno, fa tornare a respirare, sa cosa dire e come fare". In altre parole gliel'ha data e lui è contento.

E in generale c'è una triste somiglianza negli arrangiamenti, nella forma (inciso e refrain con schema AABABB) e nell'impostazione della voce studiata in sala d'incisione al punto da sottrarre ogni slancio personale, buona solo per tentare una bella figura davanti al palco. Aldilà dello scempio perpetrato da Tony Renis l'anno seguente, era necessario che questa categoria si prendesse un anno sabbatico, in una sorta di Anno Zero della discografia emergente, da cui forse ancora non si è ripresa se poi nelle edizioni seguenti darà la palma di vincitori a Laura Bono e Stefano Maffioni. Ma tant’è: non possono nascere dei Danielisilvestri ogni lustro.

Onore dunque alle due vinctrici non solo morali di questa sezione Giovani. L'esordio di Patrizia Laquidara da Catania avviene sotto l'egida di Bungaro che scrive insieme a lei questa Lividi e fiori. Dopo l'abbinamento dell'autore barese avvenuto un anno prima con la mala assortita coppia Stragà-Tatangelo, è il momento del riscatto anche per lui. Il suo stile solare si fonde con sonorità arabe di sponda sicula, e un arrangiamento affastellato di suoni cristallini. Già la metafora del titolo sulle gioie e i dolori della vita, si impone con il timbro di uno stile originalissimo. Non ultimo una voce sensualissima e una profonda visuale artistica che le permetteranno di farsi largo nella cerchia degli artisti di rango, con una interessante opera prima "Indirizzo portoghese" prodotta da Mario Venuti, dove fa spicco il suo vasto panorama culturale. Mai un premio della critica fu non solo appropriato ma anche utile per dare un senso a questa parte del Festival che ha lanciato così tanti talenti.

E anche le Giurie una tantum sono riuscite a scovare il talento del ciclone Dolcenera. Ciclone non a caso, visto che nella omonima canzone di Fabrizio De Andrè, dal quale ha tratto il suo nome d'arte, Dolcenera è riferito a una pioggia torrenziale. Molto più semplicemente, Emanuela Trane, salentina, buca letteralmente lo schermo con un pop brillante, e una voce nasale ma squillante, dove fotografa il momento presente della sua generazione con poche frasi che vanno dirette al cervello, senza tanti fronzoli: Siamo tutti là fuori, evidentemente fuori da un mondo che non ha il coraggio di rinnovarsi e svecchiarsi, fuori in attesa che qualcuno ci inviti, comunque ci siamo, e non vogliamo passare inosservati o fare da comparsa. Viviamo la nostra vita, anche sbagliando o soffrendo ma vogliamo viverla tutta nel modo migliore. Bellissimo il riff di ritmica iniziale, il brano poi acquista grinta con percussioni sferzanti e qualche colpo di violino e i giusti backvocals, prima di una reprise da manuale. Dolcenera sa quel che vuole e lo dimostra anche il suo album d'esordio "Sorriso nucleare": pur rivolgendosi al pubblico più giovane, dimostra di poter crescere con questi. Le rivoluzioni sanremesi la estrometteranno dal diritto di accedere tra i Big nel 2004, e per riscattarsi si dovrà tuffare nella fossa del reality musicale Music Farm, vincendolo, ma sfoggiando anche il suo talento come interprete e come animale da palcoscenico.

E sui soliti vieti malvezzi festivalieri, Sanremo si appresta a fare i conti con sé stesso, e nel chiedersi se sia ancora al passo coi tempi una manifestazione di questa natura, ecco che in molti inizieranno a metterci le mani per trovare soluzioni nuove e vincenti: non per il Festival, ma per i discografici che dal Festival sperano di attingere nuova linfa dal settore sempre più in crisi col calo di vendite, aumento dei prezzi (in Euro) e avanzamento del download. Ma se per soddisfare i capricci delle imprese musicali il Festival dovesse ritenersi sopravvissuto o sopravvivente (parafrasando un Ligabue che a Sanremo non ha mai messo piede), allora questo Festival potrebbe davvero fregiarsi del vessillo dell'immortalità.

 


FRASE DELL'ANNO:
Le parole tue mi sfiorano
quelle parole che sai dirmi quando voglio andare
vincono
(da "Morirò d'amore", Giuni Russo)

PERLE DI SAGGEZZA:
Abbandonata al largo dalla mia gioventù
Di immagini di stordimenti e di tabù
Cederei cose mie per un po' di caldo in più
Leggerei mie poesie se non fosse inutile
(da "Tre fragole", Maria Pia and Superzoo)

MARIO BONATTI

Continua...