Anno: 1967
Altri titoli: -
Interpreti: Glen Campbell
HitParade: -
Chart annuale: -
Altri interpreti: Isaac Hayes -
Marty Robbins - Jack Greene - Anne Murray - Henry Mancini - Joe Tex - Ray Conniff -
Vikki Carr - Eddy Arnold
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Malinconica ed appassionata canzone (non consigliabile agli amanti dell'hip hop o della
techno poichè potrebbero essere colti dalla nausea) su di un amore che finisce, portata
al successo da Glen Campbell (N° 2 nella hit list country e al N° 26 in quella pop).
Glen Campbell, insieme con i suoi sodali Ray Price e Eddy Arnold fu l'artefice, a metà
degli anni '60 della più incredibile svolta della musica country verso il pop easy
listening che la storia ricordi: artisti che si erano dedicato al country più hard,
cambiarono stile e tipo di arrangiamenti, per cercare di raggiungere un pubblico il
più vasto possibile ed, in particolare, quello urbano delle big cities, prima fra
tutte, la grande e dolce Mela che tutti vorrebbero addentare, New York. La risposta
dei consumatori fu totale; vuol dire che i "traditori" avevano visto giusto.
Bisogna confessare, per amore della verità, che molti considerarono questo cambiamento
come un autentico schiaffo sul muso ed un insulto alla loro fedeltà di fans:
personalmente, io stesso, ascoltando per la prima volta questo inconsueto sound,
pensai di trovarmi addirittura in presenza di una omonimia. Per intenderci, lo stesso
shock che proverebbe un ammiratore di Vasco Rossi qualora il suo idolo si mettesse
a cantare "T'adoriam, ostia divina" (absit iniuria verbis).
La canzone in oggetto, scritta da Jimmy Webb, presenta la caratteristica, comune a
tutti i brani dell'autore, di essere ultra melodica ed orchestrata in modo sfarzoso,
se non esagerato; non è così complessa come altri suoi titoli (ricordate McArthur Park?),
ma certo non è una musica da quattro accordi, da eseguire con tre strumenti: la voce
assai bella di Glen, che rimane uno dei cantanti più sottostimati della storia, è
adattissima al pezzo, i cui versi sono facilmente consultabili in rete. Nulla,
assolutamente nulla di country è presente nella composizione: è un pop totale, per
un pubblico di mezza età, cresciuto con Tony Bennett piuttosto che con George Jones.
Qualche maligno la potrebbe giudicare "mielosa" e, obtorto collo, non mi sentirei di
lanciargli addosso il "crucifige".
Da molti ritenuta un evergreen risalente alla "golden age of Americana music" degli
anni '30 e '40, "By The Time I Get To Phoenix" ha un numero incredibile di versioni
alternative: a memoria, Marty Robbins, Jack Greene, Anne Murray, Henry Mancini, Joe Tex,
Ray Conniff, Vikki Carr, Eddy Arnold e avanti così. Da trauma la versione di Isaac Hayes,
lunga 18 minuti e mezzo: durante i primi 8 minuti il vocalista predica al pubblico
accompagnato solo dal basso; la parte musicale arriva all'improvviso come una ventata
di aria gelida in un deserto.
(Giovanni Villata)
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