Anno: 1982
Altri titoli: -
Interpreti: Frida
HitParade: #7, Dicembre 1982
Chart annuale: Top 50
Altri interpreti: -
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Parliamo un po’ di Anni-Frid Synni Lyngstad. Tranquilli, chi scrive non s’è ad un tratto invaghito di una misconosciuta cantante nordica, ma si sta semplicemente riferendo ad una delle due componenti degli ABBA.
Non quella bionda, il cui nome è Agnetha Falkstog, ma l’altra. Nel 1982, la “brunetta” del gruppo svedese (anche se, a ben vedere, i suoi capelli erano più sul rossiccio) accorciò il suo nome in Frida ed incise I know there’s something going on. Canzone dal titolo chilometrico e dal sound inconfondibile, di quelle che fanno uno strano effetto perché sembra di averle ascoltate (e ballate) fino all’altro ieri, salvo poi accorgersi che sono già passati più di vent’anni (e forse a ballare non ci si va neanche più!).
Ma torniamo a parlare di Frida. La trentasettenne cantante aveva alle spalle praticamente due matrimoni: il primo con Benny Andersson, altro membro degli ABBA; il secondo, decisamente più ingombrante, con quello che, piaccia o no, è stato uno dei gruppi più rappresentativi degli anni a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80. Forse in futuro ce ne occuperemo, anche se ci sono in rete moltissimi siti dedicati a loro che già lo fanno egregiamente, a testimonianza del profondo segno che la band ha lasciato nella storia della musica pop e soprattutto in quella del costume.
Era pressoché impensabile, dicevamo, che questa pur compassata signora se ne stesse con le mani in mano. Ormai era in ballo e, giustamente, non intendeva farsi da parte solo perché il fenomeno ABBA era ormai consegnato agli archivi. E poi c’era quel brano così interessante intitolato In the air tonight… Perché non lavorare a qualcosa di simile, magari proprio con chi lo aveva composto ed inciso l’anno prima? Fu così che nella vita (artistica) di Anni-Frid si materializzò Phil Collins.
Quest’ultimo aveva da poco intrapreso una promettente carriera solista parallela a quella di leader della “sterzata pop” dei Genesis ma, nonostante il calendario fitto di impegni, non fece una piega quando si trattò di traslocare, con i musicisti che lo avevano recentemente accompagnato in tour, ai Polar Studios di Stoccolma per registrare e produrre l’album Something’s going on. Che conteneva canzoni scritte da Brian Ferry, Steven Bishop, lo stesso Collins e Per Gessle (tranquilli, è il “brunetto” dei Roxette).
La quasi title-track era stata però composta da Russ Ballard, un cantante e musicista rock che aveva militato in alcuni gruppi (tra cui gli Argent) alla fine degli anni ’60 per poi mettersi in proprio nel corso del decennio successivo. In quel periodo aveva cominciato a comporre canzoni anche per altri artisti, ma senza mai imbroccare un vero e proprio hit. Tanto che il suo brano più conosciuto, forse, è proprio questo. Non solo: volendo proprio infierire, si potrebbe osservare come il suo successo, più che alle abilità compositive del rocker, sia dovuto alla traccia ritmica nella quale si uniscono la batteria di Phil Collins e la chitarra di Daryl Stuermer.
Un riff che ha il potere di trasformare quella che potrebbe essere una canzoncina come tante altre in un pezzo trascinante ed energico. E di mettere in ombra anche la voce di Frida, che a tratti sembra soffrire l’assenza dei compagni di viaggio di un tempo. Questa impressione è stata confermata, peraltro, anche da Collins, che all’epoca si stupì di come la cantante svolgesse il lavoro in sala d’incisione in maniera “passiva”, rimanendo sempre in attesa di qualcuno che le dicesse nei minimi dettagli cosa fare.
Da questa insicurezza sarebbe scaturito anche il duetto con il musicista inglese (Here we’ll stay), contenuto nel disco. Collins aveva cantato il pezzo per meglio guidare l’interpretazione di Frida, ma il risultato continuava a non convincerlo. Nacque così l’idea di utilizzare entrambe le voci per la versione definitiva. Ma quando la casa discografica volle fare uscire il brano come singolo, Phil ci ripensò e, trincerandosi dietro false motivazioni editoriali, fece togliere tutte le parti da lui eseguite. In realtà, come ebbe modo di dichiarare in seguito, non voleva essere identificato in nessun modo con quella canzone. Si era forse pentito di avere dato troppo supporto una collega che, in fondo, non reputava al suo livello? In questo caso, un raffronto tra le vendite degli ABBA e quelle dei Genesis avrebbe potuto fargli cambiare idea sull’argomento.
Il singolo oggetto di questa scheda, a differenza di Here we’ll stay, diede parecchie soddisfazioni a Frida, ma non quella di sfondare nella classifica inglese, che più di ogni altra aveva eletto a propri beniamini gli ABBA. Qui la canzone raggiunse solo la quarantatreesima posizione, mentre negli Stati Uniti arrivò addirittura al numero tredici, quindi più in alto di molti 45 giri pubblicati oltreoceano dal gruppo svedese. In Italia la canzone si comportò piuttosto bene, come dimostra il nono posto conquistato in Hit Parade all'inizio del 1983.
Purtroppo per la cantante, l’album non fu in grado di produrre altri successi e non vendette di per sé moltissimo. La scelta di un sound più maturo le aveva fatto ottenere buone critiche ma, commercialmente parlando, non si era dimostrata granché vincente. D’altra parte, Stig Anderson - il discografico della Polar Music che aveva lanciato il mitico quartetto - dopo avere ascoltato l’intero lavoro, l’aveva avvertita: “Non ci sono singoli qua dentro”. Frase che, per una dancing queen, doveva suonare praticamente come una condanna.
(Luca)
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