Anno: 1990
Altri titoli: -
Interpreti: Mariah Carey
HitParade: -
Chart annuale: -
Altri interpreti: -
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Ora che, con il brano We belong together, ha finalmente riconquistato la massima posizione della Hot 100 statunitense, scrollandosi di dosso i momenti difficili e i flop degli ultimi anni, ci sembra quanto mai appropriato parlare un po’ di Mariah Carey. In fondo è una superstar internazionale, ha una grande voce ed è una delle poche dive del pop che nel corso degli ultimi due decenni siano riuscite a sopravvivere a scandali, droghe, passi falsi, mariti sbagliati ed altri effetti collaterali del successo.
Anche se questa ragazza, nata nel 1970 nello Stato di New York a Long Island, di problemi ne aveva da vendere anche quando era una illustre sconosciuta: una famiglia vittima di prepotenze ed emarginazione perché “mezzosangue” (il padre è un ingegnere di origine venezuelana, la madre una cantante d’opera irlandese), il divorzio dei genitori avvenuto, anche a causa delle vicissitudini di cui sopra, quando lei era molto piccola, i primi anni trascorsi nella Grande Mela a farsi cacciare per cattivo comportamento da tutti i ristoranti in cui lavorava come cameriera nell’attesa di diventare qualcuno. Quando poi il successo l’ ha travolta come un’onda anomala all’età di vent’anni, la Carey ha avuto la pessima idea di fidanzarsi con il suo talent scout, il presidente della Sony Music Tommy Mottola, che si sarebbe presto trasformato in un marito-padrone (i due hanno poi divorziato nel ’98).
Lei stessa, in una recente intervista, ha dichiarato di essersi sentita una schiava dell’industria musicale, riportando alla memoria il periodo in cui Prince si faceva riprendere con la scritta slave tatuata sulla guancia in segno di ribellione nei confronti della sua casa discografica (anche se lui, a differenza di lei, non se la doveva vedere col capo anche al di fuori dell’orario di lavoro e all’interno delle mura domestiche).
Per anni Mariah ha dovuto lottare, quasi invano, contro chi voleva farle incidere ad ogni scadenza un clone del suo album d’esordio, quello omonimo pubblicato nel 1990 sull’onda del successo del primo singolo Vision of love. Una ballata di quelle che oggi si definiscono old school e che fanno la fortuna dei vari John Legend, Ricky Fanté ed Alicia Keys (della serie: dai tempi di Marvin Gaye e Stevie Wonder nulla si crea e nulla si distrugge…). Sulle prime, la canzone passò piuttosto inosservata, tanto da non riuscire ad entrare neppure tra le prime settanta posizioni della chart americana. Ma ciò avveniva solo perché il “circo mediatico” non era stato ancora opportunamente scatenato: bastarono infatti alcune apparizioni televisive studiate ad arte perché la gente cominciasse ad accapigliarsi nei negozi pur di aggiudicarsi una copia del disco.
Fu così che, in pochissimo tempo, Vision of love ebbe la ben più prosaica visione di incassi stellari e di un primo posto in classifica. In ogni angolo del globo (o quasi: in Italia ci siamo accorti di lei solo qualche anno più tardi), il pubblico fu conquistato dalla voce e dalla bellezza di quella ragazza mulatta dai riccioli d’oro che, sulla copertina dell’album, sfoggiava una silhouette mozzafiato fasciata da un aderentissimo abitino nero. E che, in quel microfono vecchio stile con il quale veniva immortalata, gorgheggiava come una piccola Aretha Franklin che aveva ascoltato troppi dischi di Whitney Houston.
Dopo Vision of love, che la Carey aveva scritto con l’aiuto dell’amico e collaboratore Ben Margulies, l’album fruttò altri tre successi, tra i quali merita di essere citato almeno I don’t wanna cry, un lento composto da Narada Michael Walden (accreditato anche tra i produttori di Vision of love) che supera in intensità il primo singolo e ci ricorda come la voce di Mariah, quando non si perde in sussurri pretenziosi o in ridicoli tentativi di imitazione del verso del gabbiano, sia in grado di regalare vere emozioni. Tanto che, riascoltando questi pezzi, ci sentiamo quasi disposti a perdonarle episodi deprimenti tipo Loverboy o Thank God I found you.
(Luca)
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